
L’epoca del «prestito in banca o nulla» sta lasciando posto a nuove vie di finanziamento
Crescere sì, ma come? Con quali strumenti e in compagnia di quali partner immaginare di ottenere i capitali necessari – e sufficienti – a strutturare e far evolvere un progetto per tentare il «salto di qualità» che prima o poi ogni imprenditore sente la necessità di compiere?
È il tema affrontato ieri a Padova in un evento di Corriere Imprese dal titolo «Capitali per crescere. Dal private equity alla Borsa, le strategie di sviluppo per le Pmi del Nordest», in cui sono state messe a confronto le esperienze di aziende di più settori e di diversi tagli dimensionali che hanno percorso esperienze di quotazione in Borsa o di ingresso di investitori privati. Spesso entrambe, in successioni in entrambi i sensi, con passaggi dall’uno all’altro ambito per diverse e non sempre prevedibili ragioni.
La metamorfosi del modello «classico» di finanziamento che le piccole imprese nordestine hanno utilizzato a lungo, cioè il ricorso agli istituti di credito, ha fatto presente in apertura Francesco Nalini, vicepresidente di Confindustria Veneto Est, la si può fissare in coincidenza con la crisi del 2008. Il credit crunch connesso alla turbolenza globale innescata dal fallimento di Lehman Brothers e la propagazione dei “titoli tossici”, aveva privato all’improvviso migliaia di imprenditori del loro polmone di liquidità di sempre. Cioè la banca di riferimento, con il direttore amico, dall’oggi al domani non più disposto ad affidare risorse se non con garanzie granitiche.
«Questo – ha evidenziato Nalini – ha dato luogo a processi di patrimonializzazione delle imprese per altre vie che, dieci anni dopo, hanno portato ad una situazione molto più robusta, con conseguente riduzione significativa dei crediti deteriorati». Come è accaduto tutto questo? A volte per una netta consapevolezza della necessità, a volte per una costrizione dovuta al bisogno di superare un passaggio generazionale, anche realtà di modesta dimensione hanno iniziato ad aprire il capitale. Effetto di un «disincantato pragmatismo» maturato «anche per l’urgenza – ha sottolineato Chiara Frigerio, docente di Organizzazione aziendale all’università Cattolica, di Milano – di supportare un processo di innovazione reso indifferibile».
Ma la refrattarietà ai nuovi modi di trovare risorse al di fuori delle banche oggi è ancora elevata. Secondo uno studio dell’ateneo meneghino, in Italia le aziende tra i dieci e i mille dipendenti con caratteristiche idonee alla quotazione sarebbero circa 110 mila. Però negli ultimi 15 anni appena 250 di esse sono entrate nei listini, e solo il 7% ha sede nel Nordest. E qui va anche compiuta una riflessione sui numerosi delisting registrati negli ultimi anni. «È un fenomeno internazionale, non solo italiano – ha rassicurato Frigerio – spesso intrapreso per entrare in processi di fusioni o acquisizioni. Non valgono però le obiezioni sui costi eccessivi in fase di ammissione e anche durante il mantenimento del titolo sul listino perché i benefici sono sempre superiori».
Può reggere, invece, invocare come alibi l’eccesso di regole? «Ne abbiamo piena consapevolezza – ha riconosciuto Daniela Costa, consigliere Consob – e sono stati fatti alcuni passaggi per alleggerirle. Però se i delisting continuano qualche riflessione in più occorrerà compierla». Antonio Santocono, presidente della Camera di Commercio di Padova e di Unioncamere Veneto, ha pochi dubbi: «Abbiamo sei volte i regolamenti che disciplinano la vita delle imprese negli Usa. Una Pmi è una struttura fragile, i problemi connessi al credito, sempre più difficile, le normative ipertrofiche e i passaggi generazionali, che sembravano in passato temi lontani, adesso sono diventati emergenze».
Ma regole e formalismi sono concetti da tenere distinti. «Le regole fanno bene, garantiscono la tutela dei risparmiatori» è il punto di vista di Federico Girotto, amministratore delegato di Masi Agricola, felicemente presente nel listino Egm. La borsa, insomma, comunque vada, è una scuola da consigliare a chi ne abbia la possibilità. E «ad aver bisogno di un sistema di norme sono prima di tutto gli imprenditori» gli ha fatto eco Bruno Conterno, ad di Noce Footwear, che invece l’Egm l’ha velocemente lasciato per intraprendere una nuova fase con il fondo veneto Palladio. Quello che non funziona in borsa è piuttosto la formazione del valore. «Dopo aver raddoppiato il fatturato il titolo ha perso il 5% rispetto alla Ipo…».
L’altro grande capitolo degli strumenti finanziari, oltre alla borsa, è l’ampio parterre generalmente definito del Private equity. I soggetti, cioè, in perpetua ricerca di imprese promettenti sotto il profilo della crescita potenziale e che siano disponibili ad accogliere, in varia misura, soci estranei al caro vecchio tranquillizzante bacino familiare dei fondatori. L’offerta è variegata, la scelta è una fase delicatissima. I partner hanno molte facce e si suddividono, in prima battuta, tra investitori puramente di capitali e altri con competenze invece industriali, ossia categorie che, grosso modo, corrispondono a quelle degli accompagnatori a scadenza oppure pazienti.
«Registriamo una visione molto attenta sul tema dell’apertura di capitali e della diversificazione delle fonti di finanziamento – ha rilevato Giovanni Tagliavini, partner dello studio di consulenza Cortellazzo & Soatto – e disponibilità sempre maggiori a superare l’approccio ‘autarchico’ familiare. I nostri imprenditori sono maturi e intelligenti per capire che la crescita esige passaggi evoluti».
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