24 Maggio 2025
La carica delle 17 mila imprese che possono rafforzare l’export


Accanto alle oltre 120 mila aziende che già operano con successo oltre confine, l’Italia ha una “riserva” potenziale di circa 17 mila imprese che hanno le carte in regola per esportare in maniera stabile ma che, per ragioni diverse, non sono ancora riuscite ad esprimere appieno questa vocazione, o lo hanno fatto solo in maniera sporadica. Sbloccare questo potenziale potrebbe tradursi in un incremento stimato tra il 2,6% e il 3,0% del fatturato complessivo derivante dalle esportazioni. Di questa importante risorsa si è occupato il Rapporto di Unioncamere sulle imprese potenziali esportatrici, curato dal Centro Studi Tagliacarne: un’analisi che invita a una riflessione approfondita sulle strategie da adottare per accompagnare queste realtà nel loro percorso di internazionalizzazione.

Il potenziale nascosto dell’economia italiana

L’analisi di Unioncamere e del Centro Studi Tagliacarne ricorda intanto che in Italia ci sono ben 120.876 imprese che attualmente vendono stabilmente beni e servizi all’estero. Accanto a queste fotografa l’esistenza di un ulteriore bacino di circa 17.000 aziende che, pur possedendo le caratteristiche strutturali e qualitative per competere sui mercati globali, rimangono ai margini dei flussi di interscambio internazionale o vi partecipano solo in modo discontinuo.

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L’export contribuisce in modo determinante alla vitalità economica del Paese. Lo sottolinea il segretario generale di Unioncamere, Giuseppe Tripoli: “L’export fornisce un contributo fondamentale alla crescita del Pil italiano. In 5 anni, l’export di beni delle nostre imprese è cresciuto del 30%, raggiungendo i 623,5 miliardi di euro. E a questo risultato vanno aggiunti anche gli oltre 141 miliardi di euro connessi alla vendita di servizi”. Queste cifre, evidenzia Tripoli, testimoniano la competitività dei prodotti italiani e la crescente importanza dei servizi avanzati nell’export. Il segretario generale di Unioncamere richiama anche l’attenzione sull’integrazione europea come fattore strategico: “Ricordo che il 54,5% delle esportazioni italiane di beni provengono dagli scambi all’interno della Ue. Come ha evidenziato Mario Draghi, le barriere interne al mercato unico a livello europeo equivalgono a un dazio che incide per circa il 40% sullo scambio di beni e addirittura per circa il 110% sullo scambio di servizi. Una maggiore integrazione europea è dunque fondamentale”. Per Tripoli, quindi, completare il mercato unico e abbattere le barriere residue può espandere le opportunità per le imprese italiane, anche per quelle che oggi esitano ad esportare. Attivare le 17.000 imprese potenziali significherebbe aumentare le vendite oltreconfine e diversificare la base esportatrice, rendendola più solida.

Identikit dell’esportatore potenziale: la distinzione fondamentale tra aspiranti ed emergenti

Comprendere natura ed esigenze di queste 17.000 imprese è il primo passo per interventi di supporto efficaci. Il rapporto Unioncamere-Tagliacarne distingue due profili specifici: le imprese “aspiranti” esportatrici e quelle “emergenti”.

Gli aspiranti esportatori: pronti al grande salto ma ancora al palo

Gli “aspiranti” esportatori sono 5.601 aziende che non hanno ancora venduto all’estero ma possiedono i requisiti per farlo. Sono prevalentemente microimprese: il 97,5% conta meno di 10 addetti. Il restante 2,4% è costituito da piccole imprese e solo lo 0,1% da medie o grandi. La dimensione micro implica agilità ma spesso anche limitatezza di risorse finanziarie, manageriali e informative, ostacoli all’internazionalizzazione.

Quasi la metà delle imprese aspiranti (46,8%) opera nel manifatturiero. Un quinto si concentra in tre comparti: fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature), industrie alimentari e industria del legno e dei prodotti in legno e sughero. Sono nicchie di eccellenza che hanno bisogno di supporto per superare la mancanza di competenze specifiche (logistica, contrattualistica, normative) o la percezione di un rischio eccessivo.

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Gli esportatori emergenti: solo un piede oltre il confine

Le 11.427 imprese “emergenti” hanno invece già avuto esperienze di vendita sui mercati internazionali, ma solo in modo occasionale. Hanno quindi “assaggiato” l’export, superando alcune barriere iniziali, ma non ne hanno fatto un’attività strutturata. La sfida per loro è il consolidamento.

Dal punto di vista dimensionale, pur prevalendo la piccola scala, le imprese più strutturate (oltre 10 addetti) raggiungono il 3,6%.

Guardando ai settori quasi il 40% opera nel manifatturiero, ma il profilo è più variegato. Solo il 14,3% delle emergenti lavora nei primi tre comparti manifatturieri più rilevanti, che sono gli stessi delle “aspiranti” ad eccezione del settore del legno sostituito da quello della riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed apparecchiature. Il motivo è abbastanza semplice da spiegare: si tratta di attività che richiedono servizi post-vendita.

Una criticità per le emergenti è l’esposizione al mercato USA: 1.600 di queste aziende esportano verso gli Stati Uniti, e per due su tre è l’unico sbocco estero. Complessivamente, le emergenti realizzano negli USA il 15,7% del loro export (87,4 milioni di euro), quota superiore al 10,8% registrato dal totale delle imprese esportatrici italiane per le vendite negli States. Questa concentrazione le rende particolarmente esposte a shock esterni (come i dazi), per cui il supporto dovrebbe mirare anche alla diversificazione geografica.

La geografia del potenziale di export: un’Italia a più velocità

Il Nord ospita il 59,7% delle 17.000 imprese potenzialmente esportatrici (10.173 unità). La predominanza di imprese settentrionali è riscontrabile sia tra le aspiranti (il 55,1% sono del Nord) sia, in misura ancora più marcata, tra le emergenti (62,0%).

Il Mezzogiorno esprime il 21,0% del potenziale nazionale (3.579 unità), con una leggera prevalenza di aspiranti (che rappresentano il 24,5% del totale delle aspiranti del Mezzogiorno) rispetto alle emergenti (19,3%).

Il Centro, con il 19,2% (3.276 unità), ha una distribuzione più equilibrata tra aspiranti (20,5%) ed emergenti (18,6%). Queste differenze richiedono interventi calibrati sui contesti locali.

A livello regionale è la Lombardia a guidare la classifica con 4.259 imprese (25% del totale). Seguono a distanza il Veneto (1.933, 11,4%) ed Emilia-Romagna (1.501, 8,8%).

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A livello provinciale, Milano è prima con 1.412 imprese (8,3% del totale), seguita da Roma (731, 4,3%) e Torino (720, 4,2%).

Dimensioni e settori: le sfide della piccola scala e le specificità produttive

La dimensione aziendale e il settore influenzano in maniera rilevante l’approccio ai mercati esteri.

La stragrande maggioranza delle imprese “aspiranti” è costituita da microimprese (il 97,5% con meno di 10 dipendenti) che si trovano ad affrontare ostacoli legati proprio alla loro dimensione, come la mancanza di risorse economiche per l’export, competenze manageriali limitate e una posizione contrattuale debole. Anche tra le “emergenti” la piccola dimensione è dominante, sebbene con una quota leggermente maggiore di aziende più strutturate (il peso delle imprese di dimensioni più grandi raggiunge il 3,6%).

Per superare i limiti delle dimensioni ridotte si potrebbero incentivare aggregazioni o consorzi.

Dal punti di vista settoriale la concentrazione delle aspiranti nel manifatturiero (46,8%) – prodotti in metallo, alimentare, legno – riflette i pilastri del Made in Italy. Il fatto che non esportino ancora suggerisce che l’eccellenza produttiva da sola non basta e che servono strategie per valorizzare queste specificità all’estero. Il profilo più variegato delle emergenti, con quasi il 40% nel manifatturiero e la presenza del settore della riparazione e manutenzione di macchinari tra i primi tre comparti rilevanti, indica un’evoluzione verso modelli di business che integrano prodotto e servizio. Promuovere la servitizzazione e la digitalizzazione potrebbe rafforzare la loro posizione.

Sbloccare il potenziale: strategie e supporti per le future protagoniste del Made in Italy

Le 17.000 imprese potenziali possono rappresentare un’importante riserva di valore per l’economia italiana. Per trasformare questo potenziale in export concreto serve però un impegno che coinvolga imprese, associazioni, istituzioni finanziarie e sistema pubblico.

Tra le aree dove avrebbe maggior senso intervenire ci sono la formazione e l’acquisizione di competenze (data la frequente assenza di figure dedicate all’export nelle piccole imprese), l’accesso a informazioni sui mercati esteri (domanda, consumatori, canali, concorrenza), il sostegno finanziario per costi iniziali (viaggi, fiere, certificazioni).

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Mentre per le aziende “aspiranti” sarebbe poi utile un accompagnamento nelle prime fasi in cui serve fare pianificazione, identificazione dei partner e supporto per le prime operazioni, per le “emergenti”, il focus è sul consolidamento e sulla diversificazione: strutturare la presenza sui mercati, sviluppare marketing più sofisticato, esplorare nuove aree geografiche per ridurre dipendenze (come quella dagli USA).



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