
In Italia si sta consolidando una nuova forma di statalismo, o meglio, uno statalismo di ritorno, che non ha il volto ideologico del Novecento ma quello pragmatico e tecnocratico dell’interventismo selettivo. È una tendenza sempre più visibile: lo Stato, attraverso enti come Invitalia, agisce per salvare aziende private in crisi profonda, spesso decotte, mal gestite, non strategiche e incapaci di stare sul mercato.
Il caso più recente è quello di Giochi Preziosi, storico marchio del settore giocattoli, che potrebbe beneficiare di un’iniezione di capitale pubblico fino a 10 milioni di euro, nell’ambito di una più ampia operazione di ricapitalizzazione da 40-50 milioni. Il gruppo, fondato da Enrico Preziosi, ha accumulato oltre 100 milioni di perdite tra il 2020 e il 2022, e porta sulle spalle un debito bancario superiore ai 300 milioni. Già tra il 2014 e il 2019 aveva registrato risultati negativi per 30 milioni. Insomma, si tratta di un’impresa con una storia lunga ma con un presente gravemente compromesso, il cui futuro, senza interventi esterni, sembra segnato. Eppure lo Stato è pronto a intervenire.
Invitalia, agenzia nazionale per lo sviluppo controllata dal Ministero dell’Economia, non è nuova a operazioni simili. Negli ultimi anni ha partecipato al salvataggio di Terme di Chianciano, della catena di abbigliamento Coin, del produttore ferroviario Firema, fino al progetto per il rilancio dello stabilimento ex Ferrosud di Matera. Aziende in difficoltà, spesso prive di una reale strategicità per il Paese, eppure beneficiarie di capitali pubblici che dovrebbero essere destinati a creare valore e sviluppo, non a prolungare l’agonia di modelli industriali superati o fallimentari. Non si tratta quindi di interventi tesi a tutelare settori nevralgici per l’economia nazionale. Al contrario, sono manovre emergenziali che servono a tamponare crisi aziendali di entità media o piccola, incapaci di competere per via di errori gestionali, cambiamenti sul fronte della domanda o semplicemente di un ciclo industriale giunto al capolinea.
Questo fenomeno solleva una domanda cruciale: a che serve lo Stato imprenditore, se le sue azioni sono rivolte al salvataggio dell’insalvabile? Non si tratta di rilanciare poli strategici o difendere occupazione su vasta scala. Giochi Preziosi non è l’ex Ilva, né tantomeno una realtà sistemica per la filiera industriale nazionale. E allora perché destinare soldi pubblici – soldi dei cittadini – a sostenere imprese che non riescono più a stare in piedi? La risposta risiede in una mentalità diffusa nella classe politica e amministrativa italiana: l’avversione al fallimento. In un Paese normale, le imprese che non ce la fanno chiudono o vengono acquisite da soggetti più solidi, mentre capitale e lavoro si riallocano verso settori più produttivi. Come osservano opportunamente dall’Istituto Bruno Leoni, trattasi di “distruzione creatrice”, descritta da Schumpeter, una dinamica dolorosa ma necessaria per il progresso. Ma in Italia si preferisce il congelamento alla trasformazione, la conservazione alla selezione, l’assistenza al cambiamento. È un tratto culturale, una forma di paternalismo economico, una sfiducia nel mercato mascherata da prudenza politica.
Il risultato di questa impostazione è una stagnazione cronica. L’Italia ha progressivamente perso la capacità di generare nuove imprese. Il dinamismo imprenditoriale si è affievolito perché l’ambiente economico scoraggia il rischio e premia la rendita. Se le aziende inefficienti vengono comunque salvate, se le regole del gioco non incentivano l’innovazione e la competizione, allora viene meno il motore stesso dello sviluppo. Il capitale resta intrappolato in settori a bassa produttività, i lavoratori non si spostano verso impieghi più redditizi, le risorse pubbliche vengono disperse in operazioni di salvataggio che non producono ritorni. È un modello che drena energie invece di generarle.
Non si può fare impresa con la garanzia che, in caso di insuccesso, arriverà la mano pubblica a risollevare le sorti. Questo approccio disincentiva il merito, premia la sopravvivenza a discapito della competitività. E soprattutto, sottrae risorse a politiche ben più urgenti: la formazione, la ricerca, l’innovazione, il sostegno alle start-up e alle PMI davvero promettenti.
Senza cedere al liberismo spinto, occorre osservare che l’intervento pubblico deve essere mirato, temporaneo, giustificato da motivazioni di interesse generale e non da calcoli politici di breve periodo. L’idea che lo Stato debba intervenire ogni volta che un’impresa cade, anche quando non ha più nulla da offrire, è una scorciatoia che porta dritti alla paralisi economica.
Quando l’intervento pubblico diventa prassi ordinaria, quando ogni crisi viene trasformata in occasione per riaffermare il primato dello Stato, allora il sistema si blocca. E a pagare, alla fine, non sono solo i contribuenti, ma anche e soprattutto le imprese sane, che devono convivere con un mercato drogato da aiuti selettivi e arbitrari. Il problema non è solo economico, è anche politico e culturale. L’Italia deve decidere se vuole essere un’economia di mercato o un’economia assistita, un paese capace di innovare o un museo dell’industria decadente.
Non è questione di cinismo, ma di realismo. Il salvataggio di Giochi Preziosi, se confermato, sarà solo l’ultimo episodio di una serie destinata a continuare. Finché la politica continuerà a usare le risorse pubbliche per finalità di consenso o per evitare i costi sociali delle chiusure, lo statalismo di ritorno resterà una costante. Ma ogni euro speso in questo modo è un euro sottratto a ciò che potrebbe davvero fare la differenza: creare nuove imprese, investire in capitale umano, premiare chi innova e rischia.
Se non si cambia rotta, il futuro sarà fatto di poche imprese capaci di camminare con le proprie gambe, e di tante imprese beneficiarie di interventi statali che le tengono artificialmente in vita. Un gioco costoso, che alla lunga pagheremo tutti.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link