
C’è sete di investimenti in Italia, ed è un’ottima notizia per le Pmi. E per dissetarsi, il private debt è un’asset class molto interessante, per almeno tre buoni motivi. Il primo: l’allargamento delle maglie regolamentari ad altri soggetti finanziatori, oltre alle banche tradizionali, ha offerto nuove opportunità ai fondi comuni di investimento. Il secondo: c’è un interesse sempre maggiore da parte dei grandi player internazionali verso il middle market per diversificare gli investimenti. Il terzo: in un Paese che, come il nostro, soffre di familismo, amichettismo, economia sommersa e assenza di ricambio generazionale, non c’è cura migliore del private. Fatto sta che il private debt, in Italia, si sta ritagliando un ruolo molto interessante: «Nel 2024 il mercato del private debt è stato da record sia nella raccolta sia negli investimenti», conferma Anna Gervasoni, direttore generale dell’Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt. «L’incremento del 53% negli investimenti è la dimostrazione della necessità di tale strumento a supporto dello sviluppo aziendale. Per questo oggi è fondamentale che gli investitori istituzionali facciano la loro parte per permettere agli operatori di moltiplicare le azioni a sostegno delle realtà imprenditoriali generando circoli virtuosi di crescita».
In soldoni? «Nel 2024, la raccolta degli operatori di private debt attivi nel mercato italiano ha segnato un +13% rispetto al 2023», spiega Gervasoni: «1.360 milioni di euro, contro i 1.200 milioni del 2023». Non solo: «nel corso del 2024 sono stati investiti complessivamente nel mercato italiano del private debt 4.962 milioni di euro, il valore più alto mai registrato e in crescita del 53% rispetto ai 3.251 milioni del 2023, finanziando 168 realtà, in aumento del 14% rispetto alle 147 del 2023».
Tutto ruota – è proprio il caso di dirlo – intorno alla leva finanziaria: «se il prezzo dell’acquisizione della società target non viene pagato solo con i fondi degli investitori (in equity), ma anche attraverso il debito, aumenta il ritorno sull’investimento, perché il costo della leva finanziaria è inferiore al costo del capitale proprio (c.d. cost of equity)», conferma a Economy l’avvocato Alessandro Fosco Fagotto, partner dello studio legale Dentons e responsabile della practice di Banking and Finance, in Italia e in Europa. Uno con una lunga esperienza nel mondo del leveraged finance, che assiste da oltre vent’anni banche italiane e internazionali, nonché i principali fondi di private debt attivi nel settore, in relazione agli aspetti legali e contrattuali di tali operazioni.
Il private debt è la classica operazione win-win: da un lato, quello degli investitori, c’è l’aspettativa di un ritorno double digit (come dicono gli inglesi), dall’altro, quello delle imprese, c’è l’accesso a un’ulteriore fonte di capitali freschi. «Il private debt finanzia tipicamente a medio-lungo termine, con un piano di rimborso solitamente tra i 5 e i 7 anni, che spesso viene chiuso anche in anticipo. Questo garantisce un buon rendimento con un livello di rischio ragionevolmente accettabile», continua Fagotto. «E per sua natura, è molto orientato alla managerialità e a una visione di business, quindi può supportare l’impresa non solo finanziariamente, ma anche strategicamente: queste forme di investimento privato agevolano il cambio generazionale, favoriscono la managerializzazione delle imprese e consentono una sempre maggiore trasparenza economico-finanziaria. Rispetto al mondo bancario, che resta sempre il riferimento e l’interlocutore privilegiato delle imprese ma che, a causa delle sempre più stringenti regolamentazioni che lo vincolano nelle operazioni a leva elevata, necessita di pacchetti di garanzie strutturati e rituali più complessi, il private debt è più veloce: quando c’è la necessità di chiudere un’operazione in tempi brevi e di individuare rapidamente delle soluzioni, può essere più dinamico e flessibile. Un’altra peculiarità è la maggiore propensione ad assumere rischi e quindi a finanziare operazioni con leve finanziarie più alte».
Certo, non ci sono pasti gratis: «Flessibilità e rapidità hanno un prezzo», sottolinea infatti Fagotto, «e il private debt ha un costo più elevato rispetto al finanziamento bancario. Il rischio viene generalmente misurato attraverso un covenant finanziario chiamato leverage ratio, che rappresenta il rapporto tra la posizione finanziaria netta e l’Ebitda», spiega Fagotto. «Quando il rapporto Net Financial Debt/Ebitda supera la soglia di 3 – cioè per ogni 3 euro di debito c’è 1 euro di Ebitda, ndr – si entra in un’area considerata a maggior rischio». E con l’aumento del rischio, le banche hanno obblighi regolamentari più stringenti. «Il private debt, al contrario, è meno interessato a operazioni con una leva finanziaria bassa, perché minore leva significa minore rischio e, di conseguenza, minori rendimenti. Il private debt, dovendo remunerare i propri investitori con rendimenti più elevati rispetto a quelli bancari, ha bisogno di ottenere ritorni più alti. Ritorni più alti implicano l’assunzione di un rischio maggiore».
Insomma: le normative di Basilea (I, II, III e ora IV), che hanno progressivamente ridotto i margini di manovra delle banche nelle operazioni a leva elevata, hanno fatto da booster al private debt. Che è cresciuto a tal punto da non potersi più permettere di snobbare il middle market: «Alcuni grandi player, che fino a poco tempo fa prendevano in considerazione solo operazioni con ticket di una certa importanza (superiori ai 100 milioni di euro), oggi valutano con serenità anche ticket da 60-70 milioni. E se ritengono che la target sia interessante, non si fanno problemi a investire anche somme inferiori: il ticket minimo per investimenti in middle market è di 10-15 milioni. Questo permette loro di diversificare ulteriormente e il rendimento ottenuto da questi investimenti, sommato a quello di altre operazioni simili, consente comunque una solida diversificazione del portafoglio». Uno dei più recenti leading case è quello di Animalia, principale gruppo italiano di strutture veterinarie, che nel luglio scorso ha visto l’ingresso, con una partecipazione di maggioranza del 56%, di Charme Capital Partners, uno dei più importanti fondi paneuropei finanziato, in particolare, da alcuni fondi gestiti da Arcmont Asset Management e Carlyle Global Credit, nonché illimity. «Questa operazione testimonia l’affermarsi di un trend: il mercato italiano, che per definizione è un mercato di middle market, sta diventando sempre più interessante non solo per i player internazionali del private equity – come già accade da anni – ma anche per quelli del private debt», conferma Fagotto. Con una generosità degli operatori stranieri decisamente marcata: il loro investimento medio è di 40 milioni di euro, contro gli 8 degli investitori domestici. Ancora prima, nel gennaio 2023, quando Ardian firmò l’accordo per l’acquisizione del 60% di Assist Digital, fu un altro segnale forte cambiamento in corso: «è stata, a mio avviso, una delle prime operazioni italiane in cui banche e fondi hanno collaborato, anziché vedersi come competitor», sottolinea il partner di Dentons. Accanto ad Ardian, infatti, figurava un pool di banche e il fondo Tikehau. «È stata anche la prima operazione “Folo” (First Out, Last Out) in Italia. È un modello nato in Inghilterra e importato in Italia. In pratica, si decide chi per primo esce dall’operazione (First Out), tendenzialmente le banche, mentre i fondi sono Last Out. I rapporti tra banche e fondi rientrano sotto il cappello di un intercreditor agreement, che disciplina, appunto, chi viene rimborsato per primo. Era uno starting point, poi è diventata un benchmark: non più “una rondine che non fa primavera”, ma un vero e proprio possibile trend di mercato. In un’operazione tipica, il private debt finanzia la parte cosiddetta term loan B (Tbl), cioè il finanziamento con rimborso a scadenza finale unica (bullet), mentre le banche gestiscono il term loan A (Tla), ovvero il finanziamento con rimborso a rate (amortizing). Questo equilibrio tra fonti di finanziamento consente una gestione più bilanciata dell’indebitamento aziendale. Le due realtà rispondono infatti a esigenze diverse: il private debt offre maggiore flessibilità, leve più alte e strutture più snelle, mentre il mondo bancario garantisce stabilità finanziaria e supporto alla gestione dell’operatività quotidiana delle imprese». Se il private debt, per esempio, non ha competenze nella gestione della finanza d’impresa legata al circolante e alle linee revolving, le banche le hanno. E questo mix di competenze è particolarmente utile nelle operazioni di acquisizione societaria. «Questa collaborazione tra banche e private debt sta diventando sempre più comune e rappresenta un nuovo paradigma per il finanziamento delle imprese», sottolinea Fagotto.
Anche perché il capitale circolante è gestito dal mondo bancario, mentre la parte acquisitiva può beneficiare anche della competenza dei fondi. «Ritengo sempre più probabile che le banche, le vere depositarie della relazione con il mondo delle imprese in Italia – e lo saranno sempre – possano entrare in una logica non solo di loan to own, come si diceva in passato, ma anche di loan to sell. In questo modello, la banca, in virtù della sua relazione con il cliente, stabilisce un rapporto nel quale poi fa entrare anche il private debt, costruendo un’operazione congiunta». Qualche consiglio? «Noi legali abbiamo il nostro ruolo», risponde Fagotto, «ma i principali attori restano le banche, con i loro canali relazionali, e il mondo del private debt. Un altro soggetto chiave è rappresentato dagli advisor finanziari, che aiutano a strutturare l’operazione fornendo una guida strategica ai borrower, coinvolgendo banche e fondi di private debt». E l’operazione può essere rapidissima: «in alcuni casi, si può chiudere addirittura in soli 15 giorni».
I numeri del private debt
È stato l’anno dei record, il 2024, per il private debt: 1.360 milioni di euro raccolti (+13%), 4.962 milioni di euro investiti nel mercato italiano, il valore più alto mai registrato e in crescita del 53% rispetto ai 3.251 milioni del 2023, 168 realtà finanziate , in aumento del 14% rispetto alle 147 del 2023. A livello di numeri, il 33% del totale ha riguardato debito a supporto di operazioni di buy out e il 32% la crescita interna delle società target. La provenienza dei capitali? Fondi pensione e casse di previdenza (39%), per il 54% di provenienza estera, settore pubblico e fondi di fondi istituzionali (28%), assicurazioni (12%). E tutto questo senza che sulla scena abbiano irrotto nuovi operatori: erano 13 lo scorso anno, gli stessi del 2023. Contrariamente a quanto si può pensare, non è vero che si tratta di operazioni destinate esclusivamente alle grandi imprese: il 58% delle società target degli investimenti effettuati nel 2024 ha meno di 250 dipendenti. E per quanto riguarda le caratteristiche delle operazioni, la durata media è di 5 anni e 10 mesi, mentre il tasso d’interesse medio è pari all’8% se consideriamo le operazioni a tasso fisso,mentre per quelle a tasso variabile il valore è pari al tasso di riferimento a cui si aggiunge uno spread del 5,6%. I soggetti domestici hanno realizzato il 60% del numero di operazioni, mentre l’80% dell’ammontare è stato investito da operatori internazionali. Si segnala un peso sempre più marcato delle operazioni di dimensione rilevante; nel 2024, infatti, le società che hanno ricevuto almeno 100 milioni di euro ciascuna sono state 11, per un ammontare complessivo di 2.698 milioni di euro, in crescita rispetto alle 4 società dell’anno precedente, che avevano ricevuto 1.504 milioni. Infine, nel 2024 le società che hanno effettuato rimborsi sono state 81 (82 l’anno precedente, -1%), per un ammontare pari a 439 milioni di euro (-32%). Il rimborso come da piano di ammortamento dello strumento ha rappresentato la tipologia più utilizzata in termini di numero, il 73% del totale. Gli operatori che hanno ricevuto rimborsi (anche parziali) sono stati 13, rispetto ai 16 del 2023.
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