
Il dibattito sui profili fiscali che caratterizzano le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza dell’impresa in tempi recenti si è catalizzato, principalmente, sulla transazione fiscale. In realtà, molte altre sono le questioni che hanno impegnato gli operatori e la dottrina che meritano una adeguata considerazione: si tratta, in particolare, dell’individuazione degli assetti impositivi che connotano i vari percorsi normativamente previsti per la gestione della crisi d’impresa e, segnatamente, di quelli che, quando non efficacemente individuati, rischiano di poter pregiudicare i tentativi di risanamento. Dei numerosi problemi che in questo contesto si sono manifestati si fa carico la legge delega di riforma del sistema tributario, nella quale, però, restano alcune lacune che è auspicabile vengano colmate in sede attuativa. Serve una coerente interpretazione sistematica dei (condivisibili) criteri direttivi che l’hanno ispirata. La parola al Legislatore!
Da ormai molto tempo, il dibattito in merito ai profili fiscali che connotano le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza dell’impresa è catalizzato dall’analisi degli istituti (nella specie, la transazione fiscale ed il correlato meccanismo del cram-down) attraverso i quali si consente la partecipazione del Fisco al sacrifico dei creditori necessario per favorire il risanamento o, comunque, il prodursi di effetti meno deteriori rispetto a quelli sottesi alla liquidazione giudiziale.
In tal modo, sono passate in secondo piano le riflessioni (che nel recente passato erano state, invece, protagoniste di un intenso confronto) sulle molteplici, ulteriori questioni che, in tale contesto, si presentano, spesso con connotati operativi di assoluta criticità.
Mi riferisco, in particolare, alla definizione delle dinamiche impositive che sono sottese ai diversi programmi di risanamento, che oggi costituiscono, nella prospettiva del legislatore, la soluzione ottimale alla quale deve indirizzarsi, secondo i diversi “percorsi” normativamente previsti, la gestione della crisi d’impresa.
In effetti, come noto a chiunque abbia affrontato la definizione di questi ultimi, il relativo “costo fiscale” costituisce una variabile decisiva per apprezzarne la sostenibilità, tanto che, proprio le diverse conseguenze tributarie condizionano, in concreto, la scelta dell’una rispetto all’altra delle possibili soluzioni. Ed invero, le lacune presenti, al riguardo, nel nostro ordinamento tributario, hanno prodotto non solo numerosi problemi a chi è stato chiamato a disegnare i contenuti dei programmi riorganizzativi, ma hanno altresì finito con il generare profonde inefficienze sul piano sistematico. La più evidente è stata quella che si lega alla considerazione, ormai pacifica, per cui la scarsa diffusione di alcuni dei nuovi strumenti di gestione della temporanea difficoltà dell’impresa pensati dal legislatore per garantire il suo riposizionamento competitivo sul mercato, non si sono affermati proprio perché è mancata una coerente disciplina che, a livello impositivo, potesse accompagnare adeguatamente il processo di risanamento.
Esempio Emblematica, in tal senso, è stata la vicenda della mancata diffusione dei piani attestati e di quelli di ristrutturazione del debito introdotti con la prima delle (recenti) riforme della legge fallimentare che è dipesa proprio da una normativa tributaria che, solo in parte poi rivista, comportava (in termini di rilevanza impositiva delle sopravvenienze da falcidia e delle plusvalenze da cessione dei beni per il reperimento delle risorse necessarie alla gestione della debitoria) una loro maggiore onerosità rispetto alle diverse (e tradizionali) soluzioni (allora) previste dal R.D. n. 267/1942 (nella specie il concordato preventivo) delle quali, dichiaratamente, tali istituti, avrebbero, al contrario, dovuto rappresentare delle efficienti (sul piano della tutela degli interessi generali coinvolti) alternative.
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Il quadro che ne emerge è sostanzialmente positivo, sia pur con alcune riserve.
Corretto, tra tali criteri, è certamente quello, per così dire, generale, in base al quale, i meccanismi impositivi in questo settore dovranno essere definitivamente distinti tra quelli che riguardano gli istituti che hanno finalità liquidatorie, ovvero finalizzati all’estinzione dell’impresa in crisi, e quelli diretti al risanamento di quest’ultima.
Per i primi, è prevista la generalizzata applicazione del meccanismo che, storicamente, nel nostro sistema di tassazione dei redditi, è stato pensato per il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa. Lo stesso sul presupposto per cui, la dissoluzione dell’impresa, conseguente all’assoggettamento della stessa alle procedure a tal fine normativamente previste, rappresenta una (sia pur particolare) vicenda del complessivo ciclo dell’attività da attrarre nell’orbita fiscale, limita la rilevanza impositiva delle conseguenti operazioni alla sola (ed eventuale) eccedenza della liquidazione “dissolutoria”. Il che, sempre per quanto noto, comporta che il reddito d’impresa relativo al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura di queste procedure, quale che ne sia la durata, ed anche se vi è stata una continuazione della gestione, è costituito dalla differenza fra il residuo attivo della medesima e il patrimonio netto iniziale determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti. Si tratta di un meccanismo che consente di dare indiscriminato ingresso, nel calcolo del reddito stesso, a tutte le passività del debitore, evitando, di fatto, la tassazione di imponibili fittizi perché, in effetti (ed ecco la correttezza della scelta del delegante di assumere questo a riferimento generale), le procedure in questione sono insuscettibili, nel loro fisiologico addivenire, di generare ricchezza imponibile.
Per gli istituti di risanamento, il medesimo delegante indica, invece, il mantenimento delle regole ordinarie di determinazione del reddito, coerentemente al fatto che la gestione della crisi è, in tal caso, una fase temporalmente limitata del ciclo normale dell’impresa stessa, la quale continua ad operare secondo le sue consuete dinamiche, sia pur con taluni condizionamenti imposti dallo strumento di risanamento prescelto tra quelli normativamente previsti. Ed è, invero, proprio su questo profilo che la legge delega, conscia di quanto sino ad oggi accaduto, innesta i tratti caratteristici della riforma.
Quest’ultima ha, peraltro, in questo ambito, uno spettro applicativo ampio che non limita le innovazioni al settore dell’imposizione sui redditi, indicandole anche per l’IVA e per i profili procedurali. La condivisibile idea “di fondo” che motiva questi interventi di riforma è la valorizzazione di quella che, in passato, personalmente, ho avuto modo di definire la “funzione servente” del diritto tributario alla tutela di tutti quegli interessi generali che naturalmente sono incisi dalla crisi dell’impresa e che, in una adeguata dialettica dei valori costituzionali, non possono essere sistematicamente prevaricati da quello fiscale.
Leggo in tal senso (auspicandone una rapidissima attuazione) la previsione che, finalmente, indica di estendere “a tutti gli istituti disciplinati dal codice della crisi e dell’insolvenza” le norme in materia di: a) irrilevanza impositiva delle sopravvenienze da riduzione dei debiti dell’impresa; b) deducibilità “automatica” delle perdite su crediti per il soggetto che “subisce” tale riduzione; c) rettificabilità immediata, sempre per il creditore, della relativa IVA; d) esclusione delle responsabilità per il cessionario dell’azienda in risanamento.
Sono queste disposizioni che hanno (nei loro diversi ambiti) un (corretto) minimo comun denominatore, ovvero quello di favorire le operazioni funzionali a garantire il successo di quei percorsi (oggi assolutamente privilegiati) che devono condurre alla restituzione al mercato di un’impresa che possa essere il centro di produzione di una ricchezza che alimenta quegli interessi generali (l’occupazione, la competitività del sistema economico nazionale, la vitalità delle filiere produttive, per citarne alcuni) la cui protezione giustifica il “sacrificio” fiscale che, sotto diverse prospettive, le norme in questione comportano. Ed in tal senso, assolutamente positivo è il riferimento del delegante alla estensione delle previsioni in questione a “tutti gli istituti”, con il quale viene data finalmente predominanza alla sostanza sulla forma, eliminando la perniciosa questione che sino ad oggi (producendo i problemi ed i paradossi dei quali si è detto) aveva visto “selezionare” il regime fiscale “di favore” in base al nomen e non all’effetto del percorso di superamento della crisi intrapreso.
Se questa, come a me pare, è stata la giusta prospettiva che ha mosso il delegante, non si può, però, constatare come restino alcune “lacune” che, se non adeguatamente considerate (e colmate), potrebbero rendere incompiuta questa attesa evoluzione del nostro ordinamento tributario.
In entrambe le pronunce, i giudici hanno motivato le loro decisioni facendo riferimento al fatto che siamo di fronte ad una disposizione che è dichiaratamente diretta a favorire il pieno ed efficiente dispiegarsi di procedure che evitano la traumatica disgregazione dell’impresa, favorendone una possibile continuità.
Ma se tale norma già declina la volontà di assicurare un asseto nel quale l’onere fiscale non deve essere di ostacolo al realizzarsi di una efficiente (in termini di interessi generali protetti) composizione della crisi di impresa che oggi è stata il “motore” dell’intervento di riforma, il suo mancato richiamo tra le previsioni da rendere “generalizzate” non è una scelta facile da comprendere, a meno di non volerla considerare una banale “dimenticanza”.
Un intervento di coerenza sistematica che non si deve dubitare (o, almeno, si deve sperare) il legislatore avrà ben chiaro al momento del suo intervento.
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