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Vendere ciò che si crea nel tempo libero può sembrare innocuo, ma rischiare di finire nel mirino del Fisco è più reale di quanto si pensi.
C’è chi cuce, chi scolpisce, chi crea gioielli o oggetti d’arredo riciclati: il mondo degli hobbisti è vasto e colorato. Ma attenzione: non appena si inizia a vendere con una certa regolarità, l’hobby rischia di trasformarsi, legalmente parlando in attività commerciale, con tutto ciò che comporta in termini fiscali e contributivi. E a quel punto, non avere una partita IVA può voler dire evasione.
Il vuoto normativo: regole vaghe e rischi concreti
L’Italia non ha una legge nazionale che definisca chiaramente chi è un hobbista. Il risultato porta ad un caos normativo gestito in ordine sparso dalle Regioni, ognuna con i suoi limiti, requisiti e soglie. In generale, però, possibile dire che è considerato “hobby” tutto ciò che è:
- Saltuario;
- Non organizzato;
- Senza struttura imprenditoriale;
- Con prodotti dal valore modico (di solito sotto i 250 euro l’uno).
Partecipare a un paio di mercatini all’anno, senza sito web né marchio, può rientrare in questa categoria. Ma basta poco per superare la linea rossa.
Quando serve la partita Iva
Se si inizia a vendere con continuità, magari ogni weekend o tramite un canale online; se la produzione ha un’identità (nome, logo, social, packaging); o se addirittura si affitta un locale o un laboratorio, allora si è di fatto un imprenditore.
In questi casi, l’apertura della partita IVA è obbligatoria. E con essa arrivano anche tutti gli oneri fiscali, contabili e previdenziali previsti per le attività economiche. Il Fisco non guarda le intenzioni ma i fatti: e se il “passatempo” comincia a sembrare un lavoro, allora sarà trattato come tale.
Previdenza: esenzioni (ma non per tutti). Attenzione al rischio di ambiguità
Uno degli ostacoli più temuti per chi passa da hobby a impresa è l’INPS. I contributi per artigiani e commercianti possono superare i 4.000 euro annui, anche se non guadagni nulla. Ma c’è una via d’uscita, valida solo per chi ha un lavoro dipendente full-time.
In questo caso, se l’impiego principale resta quello da dipendente, si è esonerato dai contributi Inps per l’attività secondaria, almeno finché il reddito da lavoro resta prevalente rispetto a quello da impresa. Un’agevolazione importante che può rendere più sostenibile il salto verso la formalizzazione.
Vendere creazioni online, partecipare a mercatini, ricevere bonifici o pagamenti digitali: tutto lascia traccia. L’Agenzia delle Entrate può incrociare i dati, e se l’hobby genera ricavi costanti senza essere registrato, si rischia accertamenti fiscali, multe e sanzioni.
Il consiglio migliore è che si tende a una vendita più di una tantum, meglio valutare fin da subito un inquadramento corretto. Esistono regimi fiscali agevolati, come il forfettario, e agevolazioni contributive che possono rendere la transizione meno dolorosa.
In conclusione: hobby sì, ma con consapevolezza
Creare con passione è meraviglioso, ma non c’è nulla di amatoriale nel fare soldi. Il confine tra passatempo e lavoro è labile, e in Italia può diventare una trappola burocratica. Meglio informarsi bene, seguire le regole, anche se imperfette e decidere consapevolmente quando è il momento di trasformare la passione in professione. Perché l’arte dell’hobbista è preziosa, ma l’ingenuità fiscale può costare cara.
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