
Nelle ultime settimane, il dibattito politico tra centro-destra e centro-sinistra, sembra essersi concentrato, tra l’altro, sulla questione referendaria, focalizzandosi, in particolare, tra l’invito, rivolto ai cittadini, proveniente dalla coalizione di governo ad astenersi dal voto (con l’eccezione di Noi Moderati che, stando ai media, sembrerebbe aver annunciato la partecipazione alla consultazione referendaria per esprimere il proprio “no”), e l’invito, invece, dei partiti di opposizione a recarsi alle urne in forza dell’importanza e dell’interesse generale riflesso nei cinque quesiti referendari.
Fermo restando che quello al voto è un diritto e un dovere civico costituzionalmente garantito dall’articolo 48 della nostra Carta Costituzionale e che si fonda sul cosiddetto suffragio universale conquistato nell’oramai lontano 1946, e fermo restando, allo stesso modo, che non sussiste un obbligo in tal senso, ossia ogni cittadino è libero di esercitare o meno quel diritto e dovere civico, tuttavia l’astensionismo, in se e per se considerato, pure esso legittimo, parrebbe qualificarsi, specie negli ultimi anni, come una forma di protesta, se non proprio, forse (la formula dubitativa si impone), come manifestazione concreta di una “indifferenza” riconducibile, con buona verosimiglianza, ad un sentimento di sfiducia rispetto alla politica e alle sue dinamiche, ma anche rispetto al potere decisionale del singolo, e per esso della popolazione che, nel passato, parrebbe talvolta aver visto vanificata l’espressione della propria volontà.
Ma, al di là di quella che sarà la libera e legittima scelta dei cittadini al proposito, non sarebbe preferibile esprimere il proprio intendimento in termini di “sì” o di “no” in maniera netta qualunque esso sia?
I giorni 8 e 9 giugno 2025 i cittadini italiani potranno, se lo vorranno, recarsi alle urne per esprimere la loro posizione rispetto ai cinque quesiti referendari abrogativi, di cui quattro riguardano il lavoro, e uno la cittadinanza. In buona sostanza, con i ridetti referendum abrogativi, si è inteso rimettere alla valutazione e alla sensibilità dei cittadini la decisione sul se approvare o meno la cancellazione di una determinata legge o di una sua parte. Nella loro enunciazione i quesiti sembrerebbero apparire di difficile comprensione siccome espressi, inevitabilmente, nella forma del richiamo normativo, né avrebbe potuto essere diversamente. E proprio per siffatta ragione, la comprensione della importanza del voto, non poteva non passare attraverso una campagna informativa ed esplicativa puntuale finalizzata, con buona verosimiglianza, a far sentire la popolazione come partecipe delle Istituzioni riconquistandone la fiducia. Tanto più allorquando, ai fini della validità ed efficacia della consultazione referendaria, ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione, sia necessario che si rechino alle urne la maggioranza della popolazione avente diritto di voto, ossia, dicendolo altrimenti in termini percentuali, il 50% più uno. Ed ancor di più allorquando l’elemento di novità rispetto alle precedenti consultazioni referendarie, e che appare rispondere all’esigenza di favorire la massima partecipazione possibile, sia rappresentato dalla circostanza che gli elettori cosiddetti “fuori sede” potranno esprimersi senza dover fare rientro nella loro città.
Con i cinque quesiti referendari, dunque, ampiamente spiegati anche attraverso i media e rubricati rispettivamente con le diciture “Stop ai licenziamenti illegittimi”, “Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese”, “Riduzione del lavoro precario”, “Più sicurezza sul lavoro”, “Più integrazione con la cittadinanza italiana”, al di là di ogni potenziale ed eventuale valutazione di carattere politico, la popolazione sembrerebbe essere invitata ad esprimersi su questioni rilevanti che incidono sulla quotidianità dei più anche a prescindere dal personale gradimento per le forze di centro destra o di centro sinistra che nello specifico dei contenuti della consultazione referendaria sembrerebbe (il condizionale appare doveroso) passare in secondo piano.
Il voto, nelle società democratiche rappresenta pur sempre l’espressione formale del proprio pensiero, la maniera maggiormente precisa per far sentire la propria voce, la massima forma di partecipazione alle scelte del Paese.
Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro
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