
I dazi sull’acciaio importato negli Stati Uniti decisi pochi giorni fa sono certo uno strumento utile per mantenere l’occupazione ed anche per raggranellare un po’ di dollari, necessari a finanziare in parte i tagli alle tasse contenuti nella legge di bilancio, che assommano alla stratosferica cifra di due triliardi e mezzo di dollari.
Tutti, nel resto del mondo, sembrano aver paura dei dazi, ma siamo sicuri che, per noi italiani, non siano invece un regalo inaspettato che ci arriva dall’altro lato dell’Atlantico?
Innanzitutto, i dati. Stando alle previsioni di OCSE e BCE, solo per citare gli organismi che dispongono dei centri studi più importanti, la crescita del Pil europeo solo nell’anno in corso dovrebbe risentirne per non più di un paio, o al massimo tre, decimali, restando comunque positiva. Si tratta dunque di un fenomeno visibile, ma non drammatico.
Ovviamente, ne risentirà anche il nostro Paese, ma solo per una parte delle sue industrie. Quelle che producono beni di lusso difficilmente ne risulteranno scalfite.
Ai ricchi, o meglio, a chi ama apparire, pagare di più per un bene esclusivo non fa né caldo né freddo. Anzi, è una inaspettata occasione per distinguersi. Probabilmente l’effetto sarà quello di far aumentare il mercato di questi beni. D’altronde, la Ferrari ha già deciso di incrementare il prezzo delle sue vetture per coprirsi dai dazi e i possibili acquirenti non hanno fatto neppure un plissè.
Il brand italiano è quello dei prodotti di lusso e di alta qualità , che ci hanno permesso di invadere i mercati internazionali e espanderci, anche negli ultimi anni di crisi. Tuttavia, non mancano anche migliaia di imprese, soprattutto di piccole e piccolissime dimensioni, che riescono ad esportare solo finchè tengono i prezzi bassi. Ma è una battaglia che siamo prima o poi destinati a perdere: non è possibile produrre in Italia a costi cinesi o indiani.
Certo, per aiutare le Pmi, in una prima fase, potranno anche intervenire ammortizzatori di natura pubblica, ma, senza un potente kick-off la loro vita sarà sempre più difficile. E lo choc non può che venire dall’esterno. I dazi, appunto. Qui arriva il regalo americano.
Proteggere l’industria nazionale con i dazi è come rompere il termometro per far finta di non avere la febbre. Significa isolarsi dal resto del mondo e perdere l’occasione di accrescere il proprio benessere grazie ad un interscambio vantaggioso tra chi produce a costi più bassi e chi esporta tecnologia più avanzata. Soprattutto significa creare nuovi monopoli artificiali ad esclusivo vantaggio delle imprese nazionali, ma non certo della collettività . Coperta da una barriera tariffaria nei confronti dell’estero, l’industria finirà inevitabilmente per profittare di una rendita di monopolio: non avendo più concorrenza, produrrà di meno e offrirà beni o servizi di qualità inferiore. Con grande soddisfazione degli azionisti, ma certamente non degli acquirenti. Tuttavia, il danno maggiore, visto che comunque le entrate aumenteranno senza fatica e senza richiedere innovazioni tecnologiche e perfezionamenti dei prodotti, sarà quello di spingere gli imprenditori verso la pigrizia: non passeranno le giornate a migliorare, ma solo a contare i soldi. E, quando la politica dei dazi cambierà , non saranno in grado di affrontare la concorrenza internazionale. Con il non improbabile rischio di una decadenza complessiva del sistema industriale.
Viceversa, per le nostre imprese queste misure protettive sono destinate ad avere un effetto potenzialmente esplosivo. Occorrerà ricercare nuovi mercati, costruire consorzi per l’export e sistemi di finanziamento più efficaci, reperire materie prime più convenienti, assumere più ingegneri… In una parola, rendere il mercato interno più efficiente e dinamico.
Ne conseguirà l’improrogabile necessità di modernizzare la pubblica amministrazione e di alleggerire la regolamentazione dei mercati. L’abbassamento dei costi che ne potrà derivare porterà ad un maggiore dinamismo dell’economia. La crescita così ottenuta potrà permettere la realizzazione di quelle politiche dirette alla riduzione degli oneri fiscali sulle imprese, che di per sé agiscono come un moltiplicatore del Pil. Servirà un breve periodo di aggiustamento, ma la chiusura del mercato nordamericano non potrà non essere l’occasione per una più capillare penetrazione dei nostri prodotti nel resto del mondo. E quando gli Stati Uniti riapriranno, potrebbero trovarsi a dover constatare che molte caselle sono già occupate.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità *****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link