
Gli under 27 hanno rivoluzionato l’ingresso in azienda. Il nuovo patto lavoro-giovani spiegatoda Paolo Iacci: «Non è fuga dal lavoro, ma da un lavoro tossico. Se le imprese non cambiano, rischiano l’irrilevanza»
È una rivoluzione silenziosa, perché nessuno urla, non ci sono grandi lotte sindacali, non ci sono sommovimenti. Noi quando parliamo di rivoluzione siamo sempre abituati a pensare alle bombe, agli spari. Niente di tutto ciò sta accadendo, quella che sta avvenendo nel mondo del lavoro è una rivoluzione fatta assolutamente nel silenzio. Non ci sono nemmeno referendum in vista, ma qui il quorum è ampiamente superato perché il modo di vivere il lavoro è profondamente cambiato e il «partito» della Generazione Z è quello che ha dato la svolta più forte. Ne parliamo con Paolo Iacci, direttore scientifico di Aidp (Associazione per la Direzione del personale) e del Master Hr Executive della 24 Ore Business School, che ha da poco dato alle stampe «La rivoluzione silenziosa. Quando le persone ridisegnano le regole».
Professor Iacci, nel suo libro parla di una «rivoluzione silenziosa» che sta modificando le regole del lavoro. Secondo lei, le aziende italiane sono consapevoli di questa trasformazione o stanno ancora agendo con logiche del passato?
«Quando parlo di rivoluzione silenziosa, intendo un ribaltamento dei rapporti di forza tra persone e organizzazioni. Un tempo erano i lavoratori a inseguire le aziende; oggi – se hanno un minimo di competenze o la possibilità di apprenderle – sono le aziende a inseguire loro. Purtroppo, molte imprese, soprattutto le più piccole, non se ne rendono conto. Eppure, i segnali sono evidenti: il 48% delle ricerche di personale non va a buon fine e le dimissioni volontarie sono più che raddoppiate in dieci anni, da un milione nel 2016 a oltre due milioni nel 2023. Ma non è una fuga dal lavoro: è una fuga da un lavoro “tossico”, dove mancano senso, benessere, crescita. Si è abbassata la soglia di frustrazione tollerabile, appena si sta male, si cambia».
Questa rivoluzione ha una regia invisibile ma potente: il comportamento quotidiano delle persone. Quanto pesa, in questa rivoluzione, il contributo della Gen Z?
«Pesa moltissimo. Le nuove generazioni portano sempre nella società degli elementi di novità e oggi stanno riscrivendo le regole del gioco senza proclami, semplicemente scegliendo ogni giorno che tipo di lavoro vogliono – o non vogliono. Hanno abbassato drasticamente la soglia di tolleranza alla frustrazione: se qualcosa non va, se manca rispetto, ascolto, fiducia, se ne vanno. Non è pigrizia o disimpegno: è consapevolezza. È un messaggio forte che il mondo delle imprese dovrebbe ascoltare con attenzione».
I giovani sembrano riscrivere le priorità tra stipendio e senso. Quali segnali evidenziano meglio questa inversione valoriale?
«Lo stipendio resta importante, ma non è più sufficiente. E la questione del senso va un po’ compresa: non si tratta di qualcosa di teorico o di etico-spirituale, bensì di qualcosa di estremamente concreto. I giovani vogliono sapere qual è il contributo che possono dare, il clima che troveranno. Cercano coerenza e chiarezza. E pretendono trasparenza anche nei meccanismi retributivi. Vogliono sapere perché un collega guadagna di più o di meno. L’equità è un valore irrinunciabile. E se manca, non hanno problemi a cambiare. Da questo punto di vista, le nuove generazioni sono più nette nell’evidenziare questa cosa».
Lei parla spesso di «riumanizzazione» del lavoro: che ruolo hanno i giovani? Sono davvero portatori di una nuova etica o stiamo solo romanticizzando un disagio?
«Io credo che i giovani siano i veri protagonisti . Non si accontentano più di ruoli esecutivi. Cercano spazio per esprimersi, vogliono relazioni vere, dialogo, ascolto. Hanno bisogno di una leadership diversa, che non controlli ma che orienti. Certo, ci sono anche le fragilità, ma spesso nascono da ambienti che non li capiscono. Il loro disagio è anche un modo per dirci che qualcosa, nel nostro modello organizzativo, non funziona più. E poi basta dire che questi ragazzi sono dei fannulloni, altrimenti non avremmo registrato negli ultimi 15 anni due milioni di persone che se ne sono andate dall’Italia: il 70% di queste sono giovani e il 40% sono laureati. Non è che questi ragazzi se ne vanno dal Paese perché non hanno voglia di lavorare. Hanno voglia di lavorare ma in maniera diversa: meno precariato e più riconoscimento di merito».
Che rischi corre un’impresa che non rivede i propri processi alla luce dei nuovi bisogni generazionali?
«Proprio in questi giorni ho avuto un incontro con un gruppo significativo di imprenditori e sparavano tutti a zero contro il lavoro da remoto. Io capisco tutte le loro preoccupazioni e le loro difficoltà, le condivido, ma oggi il punto focale è la mia forza lavoro. E se dico no a certe condizioni, significa che automaticamente faccio a meno di quella forza, soprattutto quella più giovane. Il rischio è la marginalità. Chi non cambia, rischia di non trovare più persone disposte a lavorare per lui. La flessibilità – non solo oraria, ma mentale – è diventata una leva fondamentale per attrarre e trattenere talenti. L’organizzazione deve adattarsi, aprirsi, diventare porosa. Le aziende che non lo fanno, si troveranno presto senza energie fresche e, quindi, senza futuro».
Spesso le Pmi lamentano mancanza di strumenti per attrarre e trattenere giovani talenti. Cosa consiglierebbe loro per avviare un cambiamento compatibile con le proprie dimensioni?
«Secondo me, le Pmi hanno un vantaggio competitivo che le grandi aziende multinazionali non hanno: la vicinanza dell’imprenditore a tutti i suoi collaboratori. Quindi il primo passo è mettersi in ascolto. Non servono investimenti milionari: bastano autenticità, trasparenza e attenzione. Serve un cambiamento culturale più che economico. Le piccole imprese possono essere straordinari luoghi di formazione e crescita se sanno valorizzare la relazione. Un giovane che si sente visto, ascoltato, riconosciuto resta, anche se lo stipendio non è il più alto sul mercato».
Come può un’azienda trovare il giusto equilibrio tra innovazione e centralità della persona, soprattutto quando assume giovani?
«La tecnologia deve essere al servizio delle persone, non il contrario. Automatizzare i processi va bene, ma l’elemento umano resta decisivo. Bisogna tornare a pensare alle persone come valore, non come costo. Questo vale a maggior ragione per i giovani, che cercano senso anche nell’uso della tecnologia: non vogliono essere “ingranaggi” di un sistema automatizzato, ma protagonisti dell’innovazione per migliorare ciò che fanno».
La Gen Z è cresciuta con l’intelligenza artificiale. Crede che sarà la generazione capace di usarla in modo «umano», come leva per aumentare valore e non solo produttività?
«Sì, assolutamente. La Gen Z ha un approccio nativo all’intelligenza artificiale, la vive con naturalezza. Ma ha anche una forte sensibilità ai temi etici. Credo sarà in grado di integrare l’AI nel lavoro senza subirla. Purché le aziende li mettano nelle condizioni di farlo. Serve formazione, ma anche fiducia. La vera sfida sarà costruire ambienti dove la tecnologia non sostituisce, ma amplifica le capacità umane». I capi di oggi sono pronti ad essere anche formatori e «mentori» per i giovani? «I giovani non cercano un capo autoritario, ma un mentore che li guidi, li ispiri, li aiuti a crescere. I leader che non capiscono questo, rischiano di diventare irrilevanti. Formare i capi a questo nuovo ruolo è urgente. Perché il problema non sono mai i ragazzi: sono gli adulti che non si aggiornano».
Un consiglio a un Ceo che vuole avvicinarsi alla Gen Z, da dove gli suggerirebbe di partire?
«Gli direi: smetti di giudicare e comincia ad ascoltare. La Gen Z non va compresa con i parametri del passato. Va conosciuta sul campo. Se ti apri davvero, scoprirai una generazione piena di idee, entusiasmo e voglia di costruire. Ma non puoi aspettarti fedeltà senza fiducia. In sintesi: orecchie e cuore più aperti».
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