
In Italia non si sono sviluppate come in altri Paesi europei prestigiose scuole di management, complice un sistema produttivo imperniato non su grandi imprese, ma recentemente un libro di ricercatori milanesi coglie molti punti rilevanti del nuovo scenario.
Il management
La scienza del management nasce e si sviluppa parallelamente alla nascita e allo sviluppo della grande impresa industriale moderna e quindi, tralasciando in qualche modo la variante tedesca che ci porterebbe troppo lontano nel discorso, soprattutto nel mondo anglosassone.
Questa scienza diventa presto un’attività di grande rilievo ed importanza, che conquista anche le università più prestigiose, a partire da quelle della Ivy League statunitense, sino alla recente introduzione di qualche museo, negli Stati Uniti ed in Europa, dedicato al tema.
Si sviluppa una ricca pubblicistica, con ricerche, decine di migliaia di volumi, riviste. Ne usciranno testi molto importanti quali, tra l’altro, gli studi di Taylor sull’organizzazione del lavoro o libri come Strategia e struttura di Chandler, i testi di Simon sull’organizzazione (testi nei quali appare, tra l’altro, chiara la necessaria integrazione tra management, sociologia, psicologia, economia), quelli sulla strategia di Porter, le elaborazioni giapponesi sul sistema Toyota, Kotler per il marketing, Van Horne, per citarne solo uno, per la finanza aziendale, Grant e Ireson per la produzione. E si potrebbe continuare a lungo. Rari sono invece i testi critici sull’argomento: l’impresa è sacra.
In Europa, a parte il caso tedesco, darà qualche segno di vita nel settore la scuola francese, mentre l’Italia si distinguerà per la scarsità di contributi originali. Con qualche eccezione. Le analisi sul tema dell’organizzazione del lavoro hanno avuto un qualche sviluppo in relazione al ciclo delle lotte operaie. Solo tardivamente le nostre università scopriranno le tematiche relative, ma con risultati ad oggi non certo entusiasmanti, come al solito con le dovute poche eccezioni. Quante cattedre saranno assegnate a chi semplicemente ha tradotto qualche testo statunitense vecchio di qualche anno, o magari di qualche decennio! Fa eccezione, a torto o a ragione, la scuola di management della Bocconi, che è riuscita nel tempo a scalare le classifiche internazionali, collocandosi tra le prime nel mondo. Non sono mancati nel tempo progetti editoriali di qualche respiro sul tema, ma con risultati complessivamente insoddisfacenti.
Le scuole
Ad un certo punto, le poche grandi imprese nazionali hanno scoperto anche da noi il tema del management e hanno iniziato ad aprire apposite scuole per i propri dirigenti e quadri, spesso in località amene. Si può incidentalmente notare che, mentre si sono fatti grandi investimenti per le strutture immobiliari apposite, la qualità degli insegnamenti che vi si praticavano e il collegamento organico con l’azienda di riferimento erano spesso poca cosa. Si registravano peraltro rilevanti differenze tra le scuole; si può segnalare quella del gruppo Iri, l’Ifap, per continuità e qualità degli insegnamenti, almeno per qualche decennio. Oggi il quadro si presenta come sostanzialmente spento, anche per la scomparsa di diverse imprese di grandi dimensioni.
In Europa intanto si sono sviluppate, al di là dell’ambito universitario, delle scuole di management indipendenti di notevole livello, dalla britannica London Business School, alla francese Insead, alla svizzera Imede, alla spagnola Iese. Quelle poche iniziative italiane hanno avuto invece vita stentata.
Le ragioni delle difficoltà nazionali
Tra le cause delle difficoltà che si riscontrano sulla questione nel nostro Paese va ricordato il fatto che le grandi strutture economiche sono sempre state da noi piuttosto ridotte di numero e che anzi con il tempo il loro numero si è anche ridotto ulteriormente, mentre, come si sa, si sono sviluppate soprattutto le piccole e medie imprese; certo, non sono mancati i tentativi di lavorare anche su tale specificità nazionale, con risultati però, anche in questo caso, non entusiasmanti.
Va sottolineato come in Italia la gestione delle imprese anche grandi sia affidata troppo spesso all’iniziativa di una o pochissime persone, che trascurano per larga parte di mettere in piedi e organizzare delle strutture tecniche adeguate, che assicurino coerenza e continuità nel tempo all’azione dell’impresa stessa.
Va poi ovviamente ricordata la pessima situazione in materia di strutture pubbliche, dai ministeri alle Regioni, complessivamente uno dei punti più deboli del sistema economico e politico italiano, con organismi orientati prevalentemente agli adempimenti burocratici piuttosto che alla fissazione e al perseguimento degli obiettivi rilevanti. I vari tentativi di riforme varati nel tempo, rimasti peraltro sempre a livelli preliminari, non sono riusciti ad intaccare tale sistema. Siamo rimasti sostanzialmente ai tempi di Kafka e di qualche umorista che raccontava le storie relative all’organizzazione dell’Ammiragliato inglese.
Un libro recente sul tema
In tale quadro vanno inseriti i relativamente pochi studi di qualità che cercano di superare le difficoltà di elaborazione sopra descritte nel nostro Paese. Va segnalato a tale proposito un volume molto recente dal titolo apparentemente bizzarro di Disordine Organizzativo, pubblicato da Il Mulino, Bologna, 2025, i cui autori sono Cristiano Ghiringhelli, Raoul Nacamulli, Luca Quaratino, tutte persone operanti nell’ambito universitario a Milano dove svolgono attività di docenza e ricerca nell’ambito dei temi dell’organizzazione aziendale e della gestione delle risorse umane.
Il testo consta di una prefazione, un’introduzione, sette densi capitoli, più i consueti indici, per un totale di 292 pagine.
In una situazione di grandi turbolenze esterne e di cambiamenti epocali (trasformazione digitale, e più recentemente avvento dell’IA, che insieme a potenziali grandi benefici presenta diverse grandi incognite, cambiamenti del quadro economico e geopolitico internazionale – vedi l’assalto in atto da parte di Trump al commercio e all’ordine mondiale -, cambiamento climatico, ecc.), le chiavi di lettura del volume si concentrano sulle possibili strategie di azione di fronte alle accennate e complesse sfide che le organizzazioni e le persone si trovano oggi ad affrontare.
Certo, già in passato non sono mancate nel tempo importanti riflessioni sulla necessità di adeguamento delle organizzazioni di fronte a rilevanti cambiamenti esterni e si era anzi creato ad un certo punto uno slogan apposito – How to manage change -, ripetuto all’infinito nelle scuole di management di tutto il mondo già a partire almeno dai primi anni Settanta. Ma l’oggi si caratterizza per la grande profondità, la repentinità e le grandi incertezze dei cambiamenti in atto, certamente alla fine molto più importanti che in passato.
Il testo non pretende di fornire ricette pronte all’uso rispetto a tali questioni, semmai vorrebbe fornire una bussola utile ad orientarsi nelle complessità e nelle incertezze del presente. Certo, il titolo appare paradossale, apparentemente in contraddizione con la logica e il senso comune, ma pone l’accento sulla necessità per le organizzazioni di concedere larga autonomia alle persone ed ai team come fattore di stimolo alla crescita e all’innovazione in tempi come questi, pur nell’ambito di sistemi di pianificazione e controllo flessibilmente adeguati. In effetti l’ordine tradizionale rischia di diventare una gabbia d’acciaio, fonte di processi organizzativi impersonali e ingessati.
A livello un poco più analitico, si segnalano in particolare alcuni capitoli del testo. Il secondo analizza la crisi della burocrazia indotta dai mutamenti in atto nell’ambiente competitivo e nel mondo; il terzo cerca di individuare le nuove forme organizzative e descrive la lunga marcia verso la rivoluzione post-burocratica; il quinto propone una nuova idea di management adeguata ai tempi; infine il sesto fa comprendere come il cambiamento organizzativo sia un fenomeno complesso e come nel suo percorso di debbano affrontare dilemmi, tensioni e conflitti.
Conclusioni
I temi affrontati nel testo appaiono certamente di grande attualità e sono sviluppati con rilevante competenza; gli autori hanno saputo cogliere e analizzare con attenzione le conquiste più recenti relative alla riflessione sui temi organizzativi.
Ne sia prova il fatto che i temi della grande turbolenza ambientale odierna hanno catturato rapidamente l’attenzione di diversi altri studiosi nel mondo. Vogliamo citare soltanto, a mo’ di esempio, un testo francese apparso anch’esso di recente; si tratta di L’état du management 2025, scritto a cura del “Laboratoire Dauphine recerche en management” e pubblicato dalla casa editrice La Decouverte, Parigi, 2025. Esso presenta diverse analogie di impostazione con il nostro testo. Il volume parte anch’esso dai mutamenti molto importanti in atto nel contesto geopolitico, climatico, sottolineando come l’impresa e la sua organizzazione si debbano imperativamente reinventare.
Anche il volume francese constata i limiti e le inconsistenze dei sistemi organizzativi classici per mettere in luce la necessità dell’esplorazione di nuove logiche organizzative. In tale contesto i centri di riflessione devono diventare veri laboratori di sperimentazione di nuove regole organizzative, manageriali ed economiche.
Spiace purtroppo dover constatare che rispetto a tali riflessioni così avanzate, quasi illuministiche, reperibili nel testo dei nostri autori milanesi, come di quelli francesi, la situazione organizzativa delle grandi imprese e strutture pubbliche e private del nostro Paese, con qualche eccezione, si ritrovi in uno stato di rilevante arretratezza.
Qualche studioso potrebbe impiegarsi a cercare le cause di tale ritardo organizzativo e a proporre possibili rimedi, che peraltro si dovrebbe poi far digerire alle nostre classi dirigenti.
Se si può fare un’osservazione al testo è poi quella che esso guarda in gran parte alle turbolenze come a un dato, un fattore esterno alle organizzazioni, come del resto fa anche il volume transalpino, mentre peraltro le grandi organizzazioni contribuiscono esse stesse e apparentemente sempre più a modellare il mondo; basta ricordare a questo proposito il caso dei grandi gruppi statunitensi della Big tech.
Ma questo sarebbe il possibile tema di un altro libro.
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