30 Giugno 2025
Barriere interne e ostacoli regolatori frenano in Europa la crescita, la competitività, l’innovazione


La Commissione europea ha messo la complessità delle regole al primo posto tra i problemi da affrontare, assieme alla loro frammentazione e alla scelta di molti stati membri di fissare standard più restrittivi. Ogni paese però ha il suo bestiario di autodazi. Idee per una soluzione

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L’espressione “autodazi” è stata resa popolare da Mario Draghi, in un articolo pubblicato sul Financial Times il 14 febbraio 2025. Donald Trump era da poco entrato alla Casa Bianca e stava già minacciando l’escalation protezionistica che sarebbe culminata nel “liberation day” del 2 aprile. I leader europei e i rappresentanti delle industrie esportatrici erano comprensibilmente preoccupati. Ai loro timori, l’ex presidente del Consiglio rispondeva sottolineando “l’antica incapacità dell’Europa di affrontare i suoi stessi vincoli di offerta, specialmente quelli dovuti alle elevate barriere interne e agli ostacoli regolatori. Essi sono molto più dannosi per la crescita di qualunque dazio possa arrivare dagli Usa – e i loro effetti nocivi crescono nel tempo”.

 

Tale formula ha avuto grande fortuna: non c’è esponente politico, italiano ed europeo, che non ne faccia una dichiarazione programmatica. Due soli esempi. Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria di Bologna: “Mi auguro che l’Europa abbia il coraggio di rimuovere i dazi interni che si è auto-imposta in questi anni”. Elly Schlein all’assemblea di Ali – Autonomie locali italiane: “La risposta ai dazi deve guardare a un rilancio del mercato interno e all’aumento dei salari”. Con sfumature diverse, la premier e la segretaria del Partito democratico fanno propria l’analisi. Lo stesso fanno i rappresentanti degli altri stati membri.

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Ma se tutti sono d’accordo, perché nessuno fa niente? Perché le barriere interne sono state introdotte, e perché a nessuno è venuto in mente di eliminarle?

 

Per rispondere, bisogna anzitutto capire cosa sono questi fantomatici autodazi e da dove vengono: per quanto male facciano a molti, esistono in funzione dei vantaggi che procurano ad alcuni. Draghi rinvia a uno studio del 2024 del Fondo monetario internazionale, dedicato al declino dei tassi di crescita della produttività in Europa. Per la verità, l’andamento di lungo termine della produttività è un enigma un po’ in tutto il mondo. Ma è indubbio che, dopo una fase di appiattimento, negli Stati Uniti lo sviluppo delle tecnologie digitali ha dato una sferzata alla crescita. Il rapporto sulla competitività elaborato dall’ex presidente della Banca centrale europea individua la “trappola delle medie tecnologie” come la principale ragione del gap rispetto agli Usa: in pratica, le imprese europee sono bravissime a fare innovazione incrementale (e questa è la ragione del nostro successo manifatturiero, principale responsabile del surplus commerciale Ue) ma non sanno inventare cose nuove – non sanno o non posso fare quella che gli studiosi chiamano innovazione “disruptive”. Come vedremo, questo ha molto a che fare con gli autodazi.

 

Il paper del Fmi spiega che il gap nasce al livello delle imprese: “Rispetto agli Usa, il panorama Ue è caratterizzato da grandi imprese che innovano di meno, un numero inferiore di startup che sono meno dinamiche, e – in parte per conseguenza, ma in parte a causa di un minore tasso di uscita dal mercato – una sovrabbondanza di imprese piccole, mature e a bassa crescita”. Gli studiosi del Fondo puntano il dito contro due cause principali: “La dimensione limitata dei mercati europei, che limita le opportunità di crescita delle imprese, e la ridotta dipendenza delle imprese dal capitale di rischio, che determina investimenti in ricerca e sviluppo ‘a scatti’ e pro-ciclici”. Mentre questo secondo punto è legato anche a fattori culturali e comunque è riconducibile alla piccola dimensione delle imprese europee, il primo ha a che fare essenzialmente con scelte politiche: infatti, parlare di limitata dimensione dei mercati significa riconoscere che, nonostante l’enorme sforzo e gli indiscutibili progressi nell’integrazione economica, restano ancora delle barriere che, nei fatti, impediscono una concorrenza su scala realmente europea. “Abbattere le rimanenti barriere alla concorrenza intra-europea – ragionano gli economisti del Fmi – potrebbe accrescere la dimensione effettiva del mercato e stimolare la produttività delle imprese. Se confrontate con l’evoluzione dei costi degli scambi tra paesi extra-europei, le barriere tra gli stati membri dell’Ue nel periodo 1950-2010 sono scese di 6 punti percentuali per i beni e 11 punti percentuali per i servizi. Ma l’onere equivalente di quelle rimanenti si può stimare attorno al 45 per cento per la media dei settori manifatturieri – il triplo del corrispondente valore tra gli stati Usa – e addirittura al 110 per cento per la media dei settori dei servizi”.

 

Tali barriere nascono sia da scelte europee, che impongono alle imprese oneri ingiustificati o sproporzionati, sia da politiche nazionali, finalizzate a proteggere settori o imprese che i governi ritengono “strategici”. Sono il risultato di una stratificazione di interventi a cui hanno concorso praticamente tutte le classi dirigenti europee, passate e presenti. Se non si parte da questa consapevolezza – e quindi dal riconoscimento di una necessaria e condivisa revisione delle norme in vigore – difficilmente il tema degli autodazi potrà andare oltre la mera polemica politica. Per citare il Sommo Poeta: anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti. 

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Gli autodazi europei

La Commissione europea conosce bene la natura e l’origine delle barriere interne. In una comunicazione pubblicata alcune settimane fa, ha messo la complessità delle regole al primo posto tra i problemi da affrontare, assieme alla loro frammentazione e alla scelta di molti stati membri di fissare standard ancora più restrittivi di quelli comuni (un fenomeno noto come gold plating). 

 

L’eccesso burocratico agisce come “dazio interno” attraverso due canali. In primo luogo, impone dei costi che le imprese devono sostenere, dedicando personale proprio o assumendo consulenti per occuparsi della compliance. Sono risorse, finanziarie e umane, sottratte a investimenti produttivi e, in ultima analisi, sottratte all’attività propria delle aziende, che è realizzare i propri prodotti, migliorarne la qualità, cercare nuovi mercati, espandersi. Ma c’è anche un secondo e più subdolo effetto: questi maggiori costi impediscono a molte imprese, specialmente quelle di più piccole dimensioni o di più recente costituzione, di entrare sul mercato e competere ad armi pari. Agiscono come una vera e propria barriera all’ingresso e, in tal modo, riducono la concorrenza, a tutto vantaggio dei grandi player che occupano una posizione consolidata. Non è un caso se, spesso, tali norme – anche se poi si rivelano controproducenti – nascono da manovre protezionistiche messe in atto dalle imprese stesse. Richard Posner – uno dei protagonisti della rivoluzione di Chicago – in un brillante saggio del 1971 aveva spiegato l’equivalenza fondamentale tra regolamentazione e tassazione: “Una delle funzioni della regolamentazione è svolgere compiti redistributivi e allocativi che normalmente associamo alle scelte fiscali o finanziarie dello stato”. Le regole hanno effetti equivalenti alle tasse e andrebbero interpretate, e trattate, come tali. 

 

Un caso forse clamoroso è quello della regolamentazione delle emissioni dei veicoli leggeri. Oggi l’industria automobilistica europea è terrorizzata dagli effetti del bando dei motori endotermici a partire dal 2035, perché percepisce la propria arretratezza rispetto ai più agguerriti concorrenti americani e soprattutto cinesi. Questi ultimi sono in grado di offrire auto elettriche tecnologicamente più avanzate a costi inferiori. Se però riavvolgiamo il nastro ad appena pochi anni fa, erano gli stessi protagonisti del settore a chiedere regole più stringenti, perché vi vedevano un’opportunità di ricevere finanziamenti pubblici e accelerare artificialmente il turnover delle flotte circolanti. Le cose sono andate diversamente, come è ovvio. Ma è ancora più interessante interrogarsi sul perché italiani, francesi e tedeschi fossero così indietro, sui motori elettrici, rispetto ad americani e cinesi. Sicuramente una parte della spiegazione sta negli orientamenti, nelle strategie e negli errori aziendali. Ma è difficile ignorare che, per un trentennio, è stata la stessa regolamentazione europea – l’evoluzione degli standard euro, che da altri punti di vista è stata un successo – a imporre di investire per migliorare spasmodicamente le performance dei motori termici. Oggi abbiamo il motore a combustione interna più efficiente e pulito del mondo ma, sfortunatamente, nessun miglioramento incrementale avrebbe potuto arrivare al nirvana del net zero: per questo serve un cambio di paradigma e di piattaforma produttiva. Così, chi andava a caccia di sussidi ha scoperto che il mostro della politica industriale, una volta evocato, non è mansueto.

 

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Un altro esempio, forse oggetto di ripensamento, sono gli obblighi di reportistica climatica. Che sia necessario introdurre delle metriche per misurare gli impatti ambientali dei processi produttivi e delle abitudini di consumo è chiaro; lo è anche la necessità di contrastare il “green washing” da parte delle imprese, che spesso vantano virtù ambientali tutte da dimostrare quando non inesistenti. Queste giuste necessità hanno generato, nell’ordinamento europeo, un’idra regolatoria che richiede di documentare, oltre alle emissioni dirette (cosa che in buona parte già si fa), anche quelle indirette, cioè riconducibili ai fornitori e, in alcuni casi, addirittura ai clienti. La Commissione sta provando a mettere una pezza rinviando alcune scadenze e soprattutto escludendo le piccole e medie imprese dagli obblighi di reportistica. Si tratta di una soluzione parziale e ipocrita. Se, infatti, le grandi imprese dovranno comunque assolvere questi obblighi, tracciando le emissioni a monte e a valle, nei fatti saranno loro (per via contrattuale) a imporre alle Pmi quegli stessi adempimenti che (per via normativa) sono stati sospesi. 

 

La situazione raggiunge livelli paradossali nel caso del Cbam, il dazio sul contenuto carbonico dei prodotti importati in alcuni settori (ferro e acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio ed energia elettrica). Gli importatori devono dichiarare (sotto la propria responsabilità) informazioni precise sull’impronta carbonica dei beni importati, comprese le emissioni indirette (per esempio l’origine dell’energia elettrica utilizzata dagli stabilimenti produttivi nei paesi extra-europei) e, in alcuni casi, addirittura tracciare le emissioni dei prodotti precursori (cioè utilizzati come input dal produttore estero). E’ evidente che questi dati sono incredibilmente complessi da raccogliere e generalmente impossibili da verificare. Non per niente, l’industria europea è preoccupata dagli effetti del Cbam: applicandosi solo a prodotti intermedi, esso potrebbe incentivare l’importazione dei prodotti finiti (per esempio le pale eoliche), danneggiando imprese europee a valle; inoltre, poiché si accompagna alla fine della distribuzione di quote di emissione gratuite nei settori energivori ed esposti al commercio estero, il Cbam potrebbe indebolire gli esportatori europei, che sono la colonna vertebrale della nostra competitività manifatturiera. 

 

E’ vero che alcune imprese si stanno mobilitando contro l’alleggerimento degli obblighi, perché ritengono di avere un elemento di forza proprio nella qualità ambientale dei loro prodotti. Ma non si capisce perché siano convinte che questo valore aggiunto non possa essere riconosciuto dal mercato e debba pertanto essere imposto dalla regolamentazione, senza distinguere tra chi può e chi, per ragioni tecniche, non è attualmente in grado di tagliare le emissioni oltre un certo livello. Forse pensano che un elevato standard regolatorio sia un efficace strumento di protezione, non tanto della competitività sui mercati esteri, quanto delle rendite sul mercato interno? Nessun vantaggio competitivo è altrettanto facile da guadagnare quanto la tassazione dei competitor (che è, in fin dei conti, l’esatta definizione di “dazio”).

 

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Gli autodazi degli stati membri

La maggior parte degli autodazi ha, tuttavia, un’origine differente: nasce, da un lato, dagli sforzi degli stati membri di ostacolare la concorrenza transfrontaliera nei settori “strategici”; dall’altro lato, dalla progressiva abdicazione della Commissione europea dal suo fondamentale compito di imporre il rispetto delle norme comuni che sono state disegnate proprio al fine di garantire il funzionamento del mercato interno.

 

Ogni paese ha il suo bestiario di autodazi. L’Italia non è seconda a nessuno. Le cronache politiche sono puntellate da almeno un quarto di secolo dalla costante resistenza verso ogni forma di apertura di mercati protetti. Dovunque vi siano concessioni pubbliche, lì c’è una rendita e un autodazio: eppure, la parola “gare” è ancora tabù in settori tanto diversi tra loro quali i servizi pubblici locali e l’idroelettrico, il trasporto pubblico e i rifiuti, le reti per la distribuzione dell’energia elettrica e l’acqua, le autostrade e gli stabilimenti balneari. La retorica è sempre la stessa: “Questo settore non è come gli altri”, “è un settore strategico”, “non c’è reciprocità”. Dietro questi tre pretesti, si nasconde la valanga delle rendite che consumatori e imprese italiane – quelle esposte alla concorrenza internazionale e prive di santi in paradiso – devono sostenere pagando i servizi più di quanto valgano sul mercato o versando all’erario un carico fiscale spropositato. Un solo esempio tra i tanti: come ha dimostrato Andrea Giuricin, il trasporto pubblico locale ha costi di produzione, nelle best practice europee, attorno ai 3 euro / chilometro: in Italia si aggirano in media sui 4,5-5,5 euro che possono superare i 7 nelle situazioni più inefficienti. E’ come dire che, su ogni chilometro percorso in bus, gli italiani pagano una tassa di almeno un euro in cambio del dubbio privilegio dell’italianità delle corse e delle lacrime da coccodrillo sulla mancata reciprocità.

   

L’utilizzo indiscriminato delle norme su imballaggi ed etichettatura come leva di protezionismo. Il golden power, il caso forse più clamoroso di autodazio in Italia. Più paletti vengono stabiliti, più è difficile innovare. Il ruolo di Bruxelles. L’esempio della direttiva Bolkestein 

    

Le norme nazionali intervengono in modi subdoli in molti altri settori. Il citato documento della Commissione ne ricorda, tra i tanti, due: le difficoltà per i professionisti di un paese di vedere i loro titoli riconosciuti negli altri stati membri e l’utilizzo indiscriminato delle norme su imballaggi ed etichettatura come leva di protezionismo. Per esempio, “per vendere apparecchiature di illuminazione nell’Ue, un’azienda deve conformarsi simultaneamente agli obblighi di responsabilità estesa del produttore in tre categorie: imballaggi, apparecchiature elettriche ed elettroniche, e batterie. Per poter vendere in tre grandi stati membri, l’azienda deve ottenere 16 registrazioni diverse nei vari regimi di responsabilità estesa, interagendo con 10 autorità differenti, seguendo procedure separate e complesse con requisiti specifici e pagando tariffe amministrative e di registrazione distinte. Una volta registrata, l’azienda è soggetta a obblighi di rendicontazione differenti per ciascun regime, con frequenze di comunicazione variabili”. Prima di gridare allo scandalo, bisognerebbe andare a guardare quante proposte di legge o emendamenti sono stati presentati nel corso degli anni, con la benedizione più o meno esplicita di quali parlamentari o ministri e con quali sponsor (da Coldiretti a Confindustria): l’espressione “autodazi” è efficace non tanto per il sostantivo dazi che ne richiama l’effetto, ma per il prefisso che ne definisce chiaramente gli autori.

 

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Il caso forse più clamoroso di autodazio, in Italia, è il golden power, il cui obiettivo è applicare agli assetti proprietari delle imprese quegli stessi vincoli che i dazi commerciali impongono alle merci. Nato per dare al governo la possibilità di intervenire su asset specifici in casi rilevanti per la sicurezza nazionale, esso si è ormai dilatato fino al punto di diventare l’espressione massima dell’arbitrio e il capriccio del principe. Solo nel 2024, la presidenza del Consiglio ha ricevuto quasi settecento notifiche (erano poche decine prima del Covid). Le operazioni analizzate riguardano tutti i settori, imprese di qualunque dimensione e non trovano alcun freno neppure nella nazionalità delle aziende coinvolte: inizialmente i poteri speciali si applicavano alle sole aziende extra-europee, poi sono stati estesi a quelle di altri stati membri e ora valgono anche per operazioni Italia su Italia; nel caso del 5G, addirittura per la scelta dei fornitori. C’è di peggio: le prescrizioni hanno perso ogni legame con la finalità della sicurezza nazionale, in quanto riguardano questioni quali la tutela dei livelli occupazionali o le strategie di acquisto del debito pubblico. Il golden power è diventato una palestra di “fini senza confini” (per rubare una efficace espressione di Giuliano Amato), che inevitabilmente dovranno prima o poi essere affrontati dalla Corte di giustizia. Anche qui, sotto il profilo politico è utile sottolineare l’assoluta coerenza nell’espansione del golden power, a cui hanno felicemente contribuito governi di centrosinistra (Gentiloni e Conte-2), populisti (Conte-1), tecnici (Draghi) e, ora, di centrodestra (Meloni).

 

Di fronte a tutto ciò, viene da chiedersi: davvero queste misure sono coerenti con i trattati? La risposta breve è “no”. Ed è un “no” chiaro, esplicito e indiscutibile, visto che sta scritto in innumerevoli documenti della Commissione (basta sfogliare le raccomandazioni specifiche per paese). Ma la Commissione non è la guida spirituale dei governi: è un organo politico a cui il Trattato stesso conferisce il potere di intervenire, tramite l’apertura di procedure di infrazione, contro chi sgarra. Sfortunatamente, pur nella sua bulimia regolatoria, la Commissione ha sorprendentemente rinunciato a tale funzione: come ha sottolineato l’economista ed ex europarlamentare Luis Garicano, “a dicembre 2024 erano aperte solo 658 procedure sul mercato interno, il 6 per cento in meno dell’anno precedente e il 20 per cento in meno del 2020”. Nel 2023 sono state avviate solo 529 nuove procedure, contro le 1.347 del 2013. Questo calo non dipende dalla maggiore correttezza degli stati, che mediamente ci mettono più di 61 mesi ad adeguarsi alle decisioni della Corte di giustizia. Semplicemente, l’Unione europea di oggi tollera un maggiore e crescente grado di frammentazione rispetto al passato. La tendenza si è amplificata durante il primo mandato di Ursula von der Leyen.

 

Pur tenendo conto del Covid, l’attività regolatoria delle istituzioni europee si è infatti intensificata, specie nei settori maggiormente esposti all’innovazione tecnologica (per esempio il digitale e la riservatezza dei dati personali) o in quelli legati alla transizione ecologica. Apparentemente la Commissione ha tentato di arginare il fenomeno: mentre il numero di provvedimenti approvati è rimasto grossomodo costante nel tempo, ne è cambiata la composizione. Prima il rapporto tra direttive (che vanno ratificate e concedono maggiore flessibilità agli stati membri) e regolamenti (autoapplicativi e quindi uniformi in tutta l’Unione) era all’incirca di 50-50; nel tempo si è arrivati a 70-30 a favore dei secondi. Ma la maggiore rigidità si è trasformata in un boomerang nel momento in cui Bruxelles non è intervenuta per rintuzzare le fughe e le “libere interpretazioni” degli stati membri. Sicché, l’attuazione asimmetrica, il debole enforcement e il frequente ricorso al gold plating hanno fatto moltiplicare gli adempimenti e le divergenze intra-europee. Uno studio pubblicato nel 2016 sulla “Review of Financial Studies” ha mostrato che, nei mercati finanziari, l’attivismo della Commissione non ha portato a una maggiore armonizzazione ma al suo contrario. Più paletti vengono stabiliti, più diventa difficile innovare e sperimentare. Ecco perché l’Europa fatica a produrre innovazione e, ultimamente, persino a importarla. 

 

Insomma: abbiamo più regole a livello europeo ma queste non si sostituiscono alle norme nazionali; anzi, offrono agli stati membri la possibilità di sfruttare le flessibilità applicative dove esistono, forzare i limiti negli altri casi. La creazione di barriere per mezzo di barriere.  

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Che fare?

In un mondo pieno di nemici, l’Europa è insomma il primo nemico di sé stessa. La buona notizia è che, se il problema dipende da noi, da noi dipende anche la soluzione.

 

Il primo passo è avviare un serio lavoro di indagine, a livello europeo e degli stati membri, sulle barriere interne. In parte la Commissione lo sta facendo, come si vede anche dal rallentamento o addirittura l’inversione di rotta su alcuni fronti. Ma la Commissione è parte in causa e manca del necessario distacco: come si può chiedere a quegli stessi vertici politici e strutture tecniche che hanno voluto, scritto e difeso le norme sotto accusa, di fare ora autocritica e pulizia? E’ invece necessario, partendo dalla letteratura e dalle analisi esistenti, costituire un organismo multi-livello che svolga una sorta di processo a ogni singola regola introdotta negli ultimi anni: a cosa serve? Funziona? Con quali benefici e quali costi? Si parla sempre di spending review: è urgente un lavoro analogo di regulatory review che abbia come obiettivo ultimo non la semplificazione delle norme, ma un lavoro più profondo e radicale che ne metta in discussione la finalità stessa, la proporzionalità, l’efficacia e l’efficienza (strettamente in quest’ordine). E, vista la identità di fondo tra gli effetti della regolamentazione e quelli delle tasse, come queste richiedono una copertura, anche per le regole bisognerebbe fissare il principio che il livello complessivo non può crescere indefinitamente: per ogni nuova prescrizione, bisognerebbe cancellarne (almeno) una vecchia.

 

Il secondo passo è restituire alla Commissione la sua funzione primaria: prima di aggiungere leggi, garantire il rispetto di quelle esistenti. Non serve alcuna riforma per contrastare la proliferazione di norme nazionali contrarie al diritto unionale nei campi degli imballaggi, dell’etichettatura, della concorrenza e del digitale, delle telecomunicazioni, della finanza, dell’energia, degli aiuti di stato e via discorrendo. Eppure la Commissione sembra cedere alle sirene che invocano meno vincoli sugli aiuti di stato o sulla politica di concorrenza: questo equivale a dare la benedizione agli autodazi, invece di contrastarli. Pertanto, è contraddittoria la richiesta di compensare gli extracosti europei lasciando mano libera agli stati membri, come sembra suggerire la commissaria Teresa Ribera che ha appena aperto la porta al “liberi tutti” per gli aiuti in materia di energia e ambiente e ha addirittura parlato dell’investimento pubblico nel capitale delle imprese. In tal modo non si farà altro che ampliare le disparità, come del resto si è visto con gli aiuti sui costi dell’energia durante la crisi del 2022, che hanno favorito le imprese dei paesi più generosi, più finanziariamente solidi e più sfacciati (come la Germania) a scapito delle altre. Ma è contraddittorio anche partire dal fondo: il Rapporto Draghi, per esempio, punta il dito contro il mercato delle telecomunicazioni, dove operano dozzine di operatori contro una manciata negli Usa. Al di là del fatto che la qualità del servizio e i prezzi negli Stati Uniti non sono necessariamente meglio che nell’Ue, perché la liberalizzazione dei mercati delle tlc è un isolato caso di straordinario successo, il problema dell’eccessiva frammentazione non può essere risolto favorendo fusioni tra imprese senza riguardo agli effetti sulla concorrenza a valle. Occorre rimuoverne le cause: abbiamo dozzine di operatori perché abbiamo dozzine di mercati nazionali; quando avremo un mercato unico, il consolidamento potrà avvenire in modo sano. All’Europa servono pochi operatori che si contendono un mercato unico, non pochi (quasi) monopolisti nazionali. Bruxelles dovrebbe tornare ad avere il volto arcigno del censore delle furberie degli stati membri, non quello mellifluo che ha mostrato negli ultimi anni. Anche perché il primo si accompagna con l’equanimità verso gli stati membri, il secondo col doppiopesismo che abbiamo visto troppo spesso, in forza del quale gli sgarri dei governi politicamente amici si tollerano e quelli degli altri si sanzionano. Questo non è stato di diritto ma feudalesimo ed è una delle tante fonti di incertezza e frammentazione del diritto europeo (oltre che di sfiducia verso le istituzioni unionali). 

 

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Infine, il terzo passo è riprendere la strada dove l’abbiamo smarrita. Nel 2006 l’Ue ha varato la controversa Direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione del mercato dei servizi. Il principio fondante era quello del paese d’origine: riconoscere a ogni impresa la facoltà di offrire i propri servizi in uno stato membro sulla base delle norme vigenti in quello di provenienza. Nel mercato dei beni le cose stavano così fin dal 1979, grazie alla Corte di giustizia. Ma nel frattempo, invece di liberalizzare i servizi, si sono ripristinate le barriere per i beni, seppure in modi più subdoli. La stessa direttiva Bolkestein fu annacquata pesantemente, escludendone interi ambiti di applicazione quali l’impiego dei lavoratori all’estero, i servizi finanziari e i servizi pubblici. Vide la luce dopo un iter travagliato che si concluse due anni dopo la fine del mandato del commissario olandese che l’aveva concepita, Frits Bolkestein, recentemente scomparso. Eppure, il principio del paese d’origine può tornare a essere il grimaldello attraverso cui minare alla base gli ostacoli al commercio. Va in questa direzione la proposta avanzata da Enrico Letta nel suo rapporto sul mercato interno, cioè introdurre un “ventottesimo regime” europeo, disponibile a tutte le imprese di qualunque stato membro. Inizialmente dovrebbe applicarsi alle procedure di costituzione di nuove società; domani chissà.

 

Il fatto è che la diagnosi degli autodazi è relativamente facile, la prognosi non è in discussione e la terapia è nota da tempo. Anche la loro origine è ben chiara: George Stigler, premio Nobel per l’Economia nel 1982, ha mostrato che “in linea di principio, la regolamentazione viene acquisita dall’industria ed è progettata e gestita principalmente a suo vantaggio”. Tutte quelle che noi chiamiamo barriere e di cui vediamo il devastante effetto aggregato sulla produttività europea, sono nate come favori dei governi a specifiche imprese, che ne hanno potuto beneficiare in termini di minore pressione concorrenziale e maggiori profitti. E’ un risultato inevitabile quando si confonde l’interesse di alcuni con quello della collettività. Talvolta le due cose coincidono, più spesso no. Per avere un’economia competitiva, la politica non deve proteggere le imprese, ma la concorrenza; non i settori strategici, ma i mercati.





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