12 Luglio 2025
La protesta delle regioni contro la riforma europea dei fondi di coesione


Nella sua ricerca di una maggiore snellezza nelle procedure, da sempre vittime di una eccessiva complicazione di iter e burocrazie, l’Unione europea rischia un clamoroso autogol. È tutto in una delle ipotesi di revisione delle regole che riguardano l’utilizzo dei Fondi di coesione che vuole spostare il baricentro della loro gestione dalle regioni agli Stati centrali. Un’ipotesi che ha già prodotto in poche settimane una levata di scudi da parte delle regioni di quattordici dei ventisette Stati membri, capeggiate da Baviera e Lombardia.

È un caso di cui si sta parlando già da un po’ a Bruxelles. La ragione esplicita è che i Fondi di coesione, che valgono pressappoco un terzo del bilancio europeo (il budget totale europeo per il 2025 è intorno ai duecento miliardi di euro), sono oggi appannaggio delle regioni. Il loro utilizzo è di fatto l’unico caso in cui la responsabilità della spesa è affidata direttamente alle istituzioni territoriali. È va detto che, mediamente, i risultati soffrono di ritardi di spesa non indifferenti. Ma il ritardo è una media e rende un’immagine che penalizza chi invece le risorse le spende.

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E questo vuol dire che penalizza soprattutto le regioni europee più sviluppate economicamente, che utilizzano i fondi soprattutto per sostenere il tessuto industriale territoriale, ossia principalmente le piccole e medie imprese. Lo fanno favorendo la nascita di filiere grazie a progetti che mettono assieme «campioni» di livello continentale con le piccole e medie imprese dell’indotto. Lo fanno spingendo le Pmi ad accelerare sulla strada della digitalizzazione, dell’internazionalizzazione e della transizione energetica.

C’è poi da considerare il fatto che, in Italia, per esempio, i due terzi dei Fondi europei di coesione stanziati vanno al Sud: nel settennio 2021-27, secondo i dati del Dipartimento per le politiche di coesione e il Sud, che fa capo a Tommaso Foti, ministro per gli Affari europei, le Politiche di coesione, il Sud e il Pnrr, l’Italia ha attinto risorse per 141,4 miliardi. Di questi, 101,6 sono andati al Sud, 38,1 miliardi alle regioni del Centro-Nord e 1,6 miliardi non sono stati ripartiti territorialmente. Le regioni meridionali hanno tradizionalmente un tasso di spesa effettiva dei fondi europei molto basso, ed essendo titolari dei due terzi del budget, ovvio che abbassino la media nazionale.

La soluzione di cui si parla a Bruxelles è di spostare la gestione di questi fondi con più decisione verso gli Stati centrali, a scapito delle amministrazioni locali. In sé la cosa può avere una logica, ma presenta anche grandi problemi. Intanto perché penalizza proprio chi invece usa il budget europeo con efficienza. E non è un caso che nelle scorse settimane, su iniziativa di Baviera e Lombardia, sia stata prodotta una lettera firmata anche dalle regioni interessate di quattordici paesi membri per chiedere alla Commissione europea di lasciare tutto così com’è.

«Rischiamo che il budget programmato per il settennio 2028-2035 sia di molto inferiore all’attuale», spiega Guido Guidesi, assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia. «Intanto perché già si parla di un terzo delle risorse stanziate che potrebbero essere dirottate sulle spese militari del piano di difesa europeo. Poi perché, a quanto se ne sa al momento, l’ipotesi sarebbe quella di creare un meccanismo complicato, per cui i fondi resterebbero formalmente assegnati alle regioni, ma li potremmo usare solo dopo un passaggio di approvazione governativa, con tutti i ritardi e le complicazioni che si possono immaginare».

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I conti sono presto fatti. Nel periodo 2021-2027 la Lombardia ha potuto gestire la sua quota di Fondi di coesione (Fesr, Fse, quota a valere sul Piano Strategico Nazionale della Politica agricola comune), per un totale complessivo di oltre 4,4 miliardi di euro. È circa un quinto dell’intero budget regionale, dove ci sono risorse per altri venti miliardi che vanno però tutti alla sanità. A queste si devono aggiungere le risorse che dipendono dai trasferimenti dal governo centrale, che calano anno dopo anno per finanziare le manovre.

«Risultato – tira le somme Guidesi – senza i Fondi di coesione la Lombardia potrebbe contare nei sette anni su un budget di appena quattordici milioni. Chiediamo che la Politica di coesione continui a spettare interamente alle regioni: la necessaria attenzione alle aree meno sviluppate non deve andare a discapito di quelle più sviluppate, spesso proprio quelle maggiormente interessate dalle importanti sfide connesse alla transizione verso un’economia più digitalizzata e climaticamente neutra: basta guardare il caso dell’automotive».

Insomma, la tentazione della Commissione di risolvere l’inefficienza di spesa di molte regioni riportando l’assegnazione delle risorse al centro rischia di provocare una mezza rivoluzione. Ma soprattutto rischia di non risolvere nemmeno il problema di partenza: l’inefficienza della spesa. D’altra parte, basta guardare che cosa sta accadendo, sempre per restare in Italia, con i fondi del Pnrr.

Come ha denunciato giorni fa sempre qui su Linkiesta il presidente dell’Uncem, l’unione dei piccoli comuni montani italiani Marco Bussone, il mancato coinvolgimento nei progetti delle istanze locali ha prodotto una miriade di progetti che poco stanno incidendo sullo sviluppo dei territori a cui erano destinati. E comunque non è in questo modo che si insegna alle istituzioni locali a saper guardare più in alto del proprio campanile.

I Fondi di coesione sono l’unica istanza che mette allo stesso tavolo istituzioni europee e istituzioni territoriali. È grazie a questo tipo di confronti che si sta creando nei Paesi dell’Unione una nuova classe dirigente europea. È un dialogo che sta facendo crescere le istituzioni territoriali europee ma anche la classe dirigente degli apparati di Bruxelles, che avrebbe altrimenti ben poche o nulle possibilità di entrare in contatto con le effettive realtà dei territori.

«Riteniamo che sia proprio questa scarsa attitudine al dialogo a essere alla base di uno dei più clamorosi errori commessi a Bruxelles, ossia le modalità scelte dalla passata legislatura europea per raggiungere gli obiettivi del Green Deal nel settore automobilistico che ha portato a decisioni che rischiano di distruggere l’industria europea dell’auto», sottolinea Guidesi, parlando stavolta nel suo ruolo di presidente della Associazione europea delle Regioni dell’Automotive.

Oltre all’impatto economico, la decisione di ricentralizzare i Fondi di coesione porterebbe anche conseguenze politiche. In Italia, per esempio, le posizioni espresse con forza dalla Regione Lombardia, a trazione leghista, non sembrano aver avuto particolare sostegno dal resto del partito. Tra gli alleati di governo, Fratelli d’Italia non ha mai nascosto una certa propensione a riequilibrare verso Roma una serie di istanze amministrative.

Anche se il commissario europeo e vicepresidente della Commissione Raffaele Fitto, uomo di Fratelli d’Italia, si è espresso di recente in favore del mantenimento dello status quo riguardo ai Fondi di coesione. Né si sono levate voci a sinistra, per esempio dall’Emilia-Romagna: forse da parte del Partito democratico si guarda più al dividendo politico di ulteriori tensioni tra gli alleati di governo piuttosto che all’efficienza delle istituzioni. Insomma, il tema passa trasversalmente tutta la politica italiana.

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Infine, un ultimo paradosso: mettere le regioni contro Bruxelles potrebbe significare regalarle agli schieramenti sovranisti. C’è infatti il rischio che le critiche costruttive e nate nell’ambito di un trasparente federalismo europeo possano essere cavalcate da chi invece si oppone a che l’Unione europea continui il suo percorso verso una maggiore integrazione. Ed è un rischio che la fragile maggioranza che governa l’Europa oggi non può proprio permettersi. E se ne dovrà ricordare di qui a settembre, quando dovrà varare il nuovo Qfp, Quadro finanziario pluriennale, e decidere definitivamente quali regole adottare per il budget 2028-35 dei Fondi di coesione.



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