8 Giugno 2025
Agroalimentare, filiera da 700 miliardi ma frenata dalle microimprese: a Bormio il forum sulle sfide del settore


Con un valore complessivo che supera i 707 miliardi di euro e 5,8 milioni di occupati, l’agroalimentare si conferma il primo settore produttivo italiano. Ma la frammentazione penalizza la crescita: oltre l’80% delle aziende è costituito da microimprese, responsabili di meno del 10% del valore aggiunto. A Bormio il Forum Food&Beverage lancia l’allarme e propone strategie per innovazione, credito e valorizzazione delle eccellenze DOP e IGP

Una filiera da 700 miliardi di euro, con un incremento di oltre il 30% in dieci anni. Tanto vale l’agroalimentare in Italia, primo settore per valore aggiunto che sostiene un quinto del pil, ma che soffre a causa dell’estrema parcellizzazione, delle troppe microimprese. A fare il quadro della situazione sono i dati TEHA (The European House – Ambrosetti) presentati durante la nona edizione del Forum Food& Beverage in svolgimento a Bormio tra ieri e oggi. La filiera agroalimentare, composta dal comparto agricolo, dall’industria alimentare e delle bevande e dall’intermediazione, distribuzione e ristorazione, ha superato i 707 miliardi di euro di fatturato complessivo, in crescita del 34% rispetto al 2015 impiegando 5,8 milioni di lavoratori. I numeri confermano dunque l’agroalimentare come prima filiera produttiva per contributo al pil nazionale con il 19,8% considerando le attività a monte (come ad esempio la produzione di macchinari o la fornitura di energia) e a valle (come packaging o imballaggio).

Nel 2023 il settore ha generato 74 miliardi di euro di valore aggiunto diretto, un risultato che vale 2,5 volte la moda Made in Italy e oltre 5 volte l’industria chimica. L’Italia è anche il terzo tra i maggiori Paesi Ue per valore aggiunto dell’agroalimentare, con un’incidenza del 3,9% sul pil. Il comparto sconta, però, un tessuto fatto da tantissime microimprese. Troppe. Oltre 8 aziende su 10 sono micro-imprese, responsabili di appena il 9,9% del valore aggiunto complessivo del comparto. Si distinguono per la produttività le grandi imprese, che rappresentano solo lo 0,3% delll’intero comparto: hanno una produttività di 105.200 euro per addetto, un valore superiore di 1 volta e mezza (1,4) alla media UE-27 e ancora migliore rispetto a Spagna (1,6 volte), Germania (1,5) e Francia (1,2).

«La struttura di un’impresa incide sulla sua capacità di affrontare cambiamenti geopolitici, nuove regole e richieste di mercato in rapida evoluzione come quelle che stiamo attraversando – ha commentato Valerio De Molli, Managing partner e Ceo di TEHA -. E nel settore food& beverage abbiamo rilevato, con una ricerca dedicata, che oggi il 36,5% delle aziende è preoccupato per sostenere l’operatività, dato in crescita di 1,4 punti percentuali rispetto al 2024». Con 891 prodotti dop e igp, comprese le eccellenze valtellinesi, l’Italia è prima in Europa per numero di certificazioni: questo segmento ha generato 20,2 miliardi di euro di fatturato nel 2023, con il vino prodotto leader, seguito da formaggi e prodotti a base di carne. Nel loro insieme, le produzioni certificate rappresentano il 10,8% del fatturato del settore e contribuiscono per il 19,9% all’export alimentare nazionale.

«Le certificazioni – ha aggiunto Benedetta Brioschi, partner TEHA – non solo sostengono l’export, ma rafforzano il posizionamento globale del made in Italy, come dimostra anche il valore medio delle esportazioni agrifood italiane, pari a 254,5 euro per 100 kg, il più alto tra i principali Paesi europei». Il forum di Bormio rappresenta l’occasione per definire proposte di policy che coinvolgono l’intero sistema agroalimentare esteso. Misure che puntano a sostenere l’innovazione e la digitalizzazione, semplificare l’accesso al credito, valorizzare le filiere certificate, promuovere la sostenibilità lungo tutta la catena del valore, attrarre giovani talenti attraverso percorsi formativi più qualificanti e garantire un quadro normativo stabile e favorevole all’impresa.

«In un momento in cui il futuro del Paese si gioca sulla capacità di affrontare con strumenti nuovi i cambiamenti in corso – sostiene De Molli -, l’agroalimentare italiano può e deve diventare un modello di crescita resiliente, digitale e inclusivo. Per farlo è necessario un piano strategico condiviso, basato sui dati, che coinvolga tutta la filiera e guardi lontano».

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