9 Giugno 2025
Ma quanto piace l’Italia ai capitali stranieri


L’impresa italiana piace ai capitali internazionali. Per la prima volta, la Liuc – Università Cattaneo ha partecipato al rapporto dell’Annual Meeting 2025 dell’Abie, Advisory Board Investitori Esteri di Confindustria e Luiss, arrivato alla settima edizione. L’evento di presentazione, dal titolo “Italia e imprese estere: innovare per competere nel nuovo scenario globale” è stata l’occasione per presentare i risultati dello studio annuale dell’Osservatorio Imprese Estere. Lato Liuc sono stati raccolti i dati utilizzando il database dell’osservatorio Pem, Private equity monitor attivo in Liuc Business School, che quest’anno compie 25 anni e mappa l’attività dei fondi di private equity in Italia. Qui sono identificate le imprese italiane non quotate che sono state oggetto di acquisizione negli ultimi anni da fondi internazionali di private equity.

Ad oggi nel portafoglio dei fondi internazionali di private equity ci sono 420 imprese che nel loro insieme rappresentano 70 miliardi di fatturato e 250.000 addetti. Una realtà di sicuro interesse anche grazie ai significativi tassi di sviluppo che si registrano nella crescita del fatturato e degli addetti, ma anche per il loro dinamismo nell’essere punti di riferimento per aggregazioni di altre imprese italiane ed internazionali. L’impatto economico sul territorio italiano è quindi di assoluto rilievo e lo possiamo anche misurare in termini di forte spinta all’innovazione e all’internazionalizzazione che emergono da questo quadro. Anche se l’azionariato è rappresentato da un soggetto non domestico, l’italianità è più esplicita rispetto ad altri casi di azionariato internazionale, perché l’azionista finanziario rappresenta interessi di mero supporto allo sviluppo la crescita dell’azienda stessa.

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La logica di investimento di tali operatori è differente rispetto a quella che ha un gruppo industriale che decide di avere una presenza in Italia o che acquista una impresa italiana.  Nel panorama economico italiano, la crescente presenza dei capitali esteri nel settore del private equity rappresenta una trasformazione profonda del settore. Tra il 2014 e il 2024, l’attrattività del nostro Paese ha catalizzato l’interesse di oltre 200 operatori paneuropei, responsabili del 68% dell’ammontare investito complessivo: circa 60 miliardi di euro. Una cifra che certifica il ruolo sempre più centrale dell’Italia nello scacchiere degli investimenti globali. Non si tratta solo di numeri, gli investitori internazionali si sono imposti come protagonisti dei cosiddetti “mega deal”, con ticket medi d’investimento di equity che raggiunge i 104 milioni di euro per gli operatori statunitensi, seguiti da quelli britannici pari a 84 milioni di euro e francesi per 32 milioni.

In confronto, i soggetti domestici si fermano a una media di 16 milioni di euro per operazione, un divario che evidenzia la differenza di scala, ma anche la possibilità per le imprese italiane di accedere a risorse e competenze altrimenti difficilmente disponibili. Del resto, la dimensione dei fondi paneuropei è decisamente più ampia di quella dei fondi domestici e la loro vocazione nasce fin dal lato della raccolta di capitali con una logica di investimento e diversificazione in più di un paese. Inevitabilmente, quindi, si pongono come attori nelle operazioni di acquisizioni più significative. È evidente come i fondi esteri si configurino sempre più come motori di cambiamento e leve di sviluppo. Le aziende coinvolte registrano, in media, un aumento del fatturato e dell’occupazione, dimostrando che il capitale internazionale può agire come catalizzatore virtuoso. Inoltre, anche quando vengono disinvestite a soggetti internazionali, le imprese coinvolte mantengono la propria sede operativa in Italia, a dispetto di timori diffusi sullo “scippo” di eccellenze locali.

Naturalmente, la distribuzione degli investimenti non è omogenea; le regioni del Nord, in particolare la Lombardia, raccolgono la quota maggiore delle operazioni, il 39%, seguite da Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte. Anche la concentrazione settoriale è evidente: il 26% degli investimenti riguarda i prodotti industriali, ma emergono segnali incoraggianti anche nei comparti più innovativi, come l’ICT. Il nostro Paese è pronto a cogliere questa opportunità perché i capitali esteri non devono sostituirsi alla capacità imprenditoriale italiana, bensì affiancarla. La stagione di attrattività che stiamo vivendo deve trasformarsi in un vantaggio competitivo stabile e diffuso auspicando anche che queste operazioni facilitino il richiamo nel nostro Paese di competenze di manager italiani che hanno maturato esperienze internazionali e che è nostro interesse richiamare in Italia.

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