
ROMA. «Il Pnrr? Dubito che ci possa essere una proroga», sostiene l’economista Carlo Cottarelli. Che a un anno dalla scadenza del Piano fa il punto della situazione: «Il Pnrr – spiega in questa intervista – ha funzionato nel sostenere la ripresa nei primi due anni, quello che è mancato è l’aspetto della resilienza, tant’è che adesso siamo tornati allo zero virgola, la nostra crescita di sempre». Colpa di riforme «non sempre centrate e ben scritte» e progetti, a partire da quelli degli enti locali, «selezionati essenzialmente per ragioni politiche». «Perdere l’ultima rata di 28 miliardi? Non sarebbe una tragedia di proporzioni bibliche – risponde – ma bisognerebbe fare in modo di evitarlo».
Professore, il Piano avanza ancora in ritardo, tant’è che, unici in Europa, stiamo ipotizzando addirittura una quinta revisione. Cos’è che non ha funzionato?
«Chiariamo innanzitutto una cosa: il Pnrr è nato come Piano nazionale di ripresa e di resilienza e credo che tra i soldi che sono arrivati e l’effetto di fiducia legato al fatto che finalmente l’Europa si muoveva insieme di fronte all’emergenza del 2020 e del 2021, assieme ai fondi che sono arrivati alla Banca centrale europea, il Pnrr abbia certamente aiutato la ripresa. Questo non dobbiamo dimenticarcelo, altrimenti vediamo tutto in negativo, mentre l’Italia in quel periodo è cresciuta più del resto dell’Europa».
La ripresa quindi c’è stata, e la resilienza?
«Certamente questa è mancata. Perché si puntava ad aumentare il tasso di crescita medio del Paese in modo tale che in presenza di un altro choc non ci sarebbe stato bisogno di richiedere di nuovo il sostegno dell’Unione europea e questa seconda parte del Piano in Italia però non ha funzionato. Dopo quattro anni, infatti, siamo sempre allo zero virgola. È vero che negli ultimi due anni siamo cresciuti con la media europea, ma solo perché questa media è stata abbassata dalla crisi della Germania, non perché noi abbiamo accelerato. Adesso siamo allo 0,7%, più o meno sui livelli attorno all’1% che l’Italia ha registrato in passato anche in assenza di choc macroeconomici».
A cosa si deve questo magro risultato?
«Senz’altro ci sono ritardi nell’implementazione del Piano, la Corte dei conti lo ha detto chiaramente. Vediamo quanto si riesce a fare in quest’ultimo anno. Però, intanto, sono stati già rivisti verso il basso alcuni progetti, come quello molto importante degli asili nido, per cui da 264 mila posti siamo scesi a 150 mila. Sempre sul completamento degli interventi, vedo a rischio il fatto che si riesca a ridurre come previsto la durata dei processi: è vero che c’è stato un certo calo ma ancora nel 2024 servivano cinque anni e mezzo per arrivare a un giudizio di terzo grado. Insomma, siamo ben distanti dai livelli che si registrano in Francia, Germania e Spagna».
E se non si riesce a recuperare terreno, che succede?
«C’è il rischio che non arrivi l’ultima rata, quella del giugno 2026, che vale 28 miliardi. Ma con le precedenti revisioni del piano siamo stati molto furbi perché per quella data dovremo completare opere per 70 miliardi, mentre se non le completiamo ne perdiamo appunto solo 28. In pratica, la Ue ci ha dato soldi per opere che potremmo anche non terminare».
Potrebbe essere un sacrificio accettabile perdere l’ultima rata?
«In termini finanziari sì, perché con l’attuale livello dei tassi di interesse non ci sarebbe una grossa differenza attingendo ad altri fondi per poi completare le opere con più tempo a disposizione. Perdere questi 28 miliardi non sarebbe un disastro di proporzioni bibliche, ma sarebbe meglio se non accadesse».
Per quanto riguarda gli investimenti, c’è anche un problema della loro qualità?
«Sono state messe assieme tante cose e si è dovuto tener conto anche di vincoli politici. Ad esempio, nessuno ha mai spiegato perché è stata data priorità all’alta velocità della Salerno-Reggio Calabria piuttosto che, sempre per restare al Sud, a quella tra Ancona e Bari. Perché una sì e all’altra no? Poi sono stati adottati tanti progetti per rispondere alle pressioni politiche degli enti locali: nel Pnrr sono stati inseriti una marea di microprogetti per rendere le città più vivibili, progetti che vanno anche bene per quello scopo ma che però non aumentano la capacità potenziale di crescita dell’economia italiana. E poi ci sono stati errori di disegno, quello più evidente riguarda Transizione 5.0».
Con la prossima rimodulazione, il governo ha promesso alle imprese di riorientare almeno 15 miliardi di euro a loro favore per incentivare la competitività, però se si ricade in modelli di quel tipo non se ne esce.
«Bisogna disegnarle bene le cose. Su Transizione 5.0 uno dei problemi era quello di certificare ex post che i fondi ricevuti avessero effettivamente prodotto risultati per ridurre l’impatto ambientale delle varie attività. E tante imprese si sono dimostrate restie a prendere un impegno del genere tanto da frenare le adesioni».
Secondo il commissario Ue Dombrovskis tutti i Paesi dovrebbero eliminare rapidamente i progetti irrealizzabili e in una intervista a «La Stampa» ha dato una serie di opzioni alternative, dal suddividere a tappe i progetti più grandi al riorientare i fondi verso il programma Invest Eu, sino alla possibilità di finanziare le spesa per la difesa…
«Mi sembra che a questo punto la Commissione europea, pur di non deludere i paesi, stia offrendo loro una marea di possibilità per spendere tutti i fondi, visto che manca solo un anno alla scadenza. Questo è sempre stato un po’ un problema perché essendo la Commissione europea un ente politico ha sempre avuto difficoltà a forzare certe decisioni nei confronti dei Paesi di una certa dimensione, tra cui l’Italia».
Ma, considerando le pressioni della Nato e i nostri vincoli di bilancio, ci converrebbe dirottare sulla spesa per la difesa una parte delle risorse del Pnnr? Tra l’atro non abbiamo nemmeno deciso di utilizzare la clausola legata al piano RearmEu…
«Queste sono risorse che arrivano a tassi agevolati, mentre usando la famosa deroga per circostanze eccezionali bisognerebbe attingere al mercato. Però una cosa del genere cambierebbe la natura del Pnnr».
Investire sulla difesa significa però investire tanto in ricerca non solo ai fini militari…
«Siamo a giugno 2025 e non credo che si possa mettere in piedi un programma di ricerca in grado di dare risultati in un anno. Mi sembra che piuttosto si voglia chiudere un occhio per arrivare comunque al traguardo finale». —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link