28 Giugno 2025
Nella rivolta silenziosa delle imprese contro il governo ci sono buone ragioni


Lo spread è basso, il paese è stabile, l’opposizione è debole e le scuse per non rendere il paese più attrattivo, più efficiente, più sburocratizzato sono finite. Tasse e non solo. I giusti rimproveri degli imprenditori a Meloni & Co

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Giorgia Meloni non se ne è accorta, e in parte è giustificata dai molti impegni internazionali, dalle tensioni infinite che si registrano in giro per il mondo, dai rapporti complicati con i propri partner internazionali, ma negli ultimi mesi di fronte all’azione del suo governo ha preso forma, via via, un nemico invisibile, per così dire, il cui profilo non coincide né con quello dell’opposizione esterna né con quello dell’opposizione interna. Il nemico invisibile, essendo invisibile, è silenzioso, non attacca, non ferisce, non aggredisce. Ma il nemico invisibile, pur essendo invisibile, da mesi lancia segnali al governo, il più delle volte ignorati. Chi è questo nemico invisibile? Semplice: le imprese. O meglio ancora: gli imprenditori. Il nemico invisibile si muove da mesi con discrezione, oltre che con preoccupazione, e al contrario di quello che potrebbe credere il governo non è spaventato dalla politica aggressiva sui dazi di Trump, e nemmeno dalla lentezza dell’Europa e dall’impaccio dell’Italia. Il nemico invisibile sa, in fondo, che le imprese italiane sono più forti dei dazi e sa che la volontà punitiva del presidente americano rispetto alle esportazioni europee è direttamente proporzionale al grado di qualità che hanno i prodotti minacciati dai dazi, e quelli italiani sono molti. Il nemico invisibile, ovviamente, è preoccupato dell’incertezza, della produzione industriale che fatica da molti mesi, troppi, ed è preoccupato del modo in cui una crisi di fiducia, da parte degli italiani, potrebbe trasferirsi anche sui consumatori, anche se poi gli italiani, quando si parla di dati economici, da anni regalano sorprese positive trimestre su trimestre. Le paure del nemico invisibile, in verità, sono altre e coincidono con un tema che sembra sfuggire totalmente ai vertici del governo: non essere capiti.

La narrazione di Giorgia Meloni, negli ultimi mesi, rispetto ai temi economici, si è attestata su una lunghezza d’onda precisa, che grosso modo suona così. L’Italia, nonostante i gufi, ha di fronte a sé dati economici lusinghieri. La Borsa va, lo spread scende, il lavoro migliora, la disoccupazione non preoccupa, l’inflazione sta tornando sotto ai livelli di guardia, gli investimenti esteri diretti in Italia sono migliori di quelli della Francia, il pil cresce poco ma cresce più delle attese e le esportazioni, nonostante tutto, migliorano di anno in anno. Non va tutto bene – è il filo conduttore della narrazione meloniana – ma le cose vanno abbastanza bene da non destare preoccupazione quando il governo si ritrova ad aprire il file “come vanno le cose nell’economia italiana”. Tutto giusto. Ma contemporaneamente tutto sbagliato. Il nemico invisibile del governo conosce bene i dati elencati. Sa quanto è importante avere un paese stabile, tendenzialmente affidabile. E sa cosa vuol dire non doversi preoccupare dei fondamentali, come era stato per esempio con il governo gialloverde.

Ma la presenza di una condizione economica di partenza buona, al contrario di quanto sostenga Meloni, rappresenta agli occhi delle imprese una ragione in più per non essere soddisfatti (eufemismo) rispetto all’azione di governo. Sulle politiche industriali, certo, ma non solo. Rivendicare la prudenza, è il ragionamento, poteva avere un senso nei primi mesi dell’esperienza a Palazzo Chigi. Oggi che non vi sono, di fronte all’esecutivo, ostacoli veri, dal punto di visto interno, tali da poter rendere impossibile il sostegno all’attività delle imprese, le giustificazioni, semplicemente, non ci sono. La novità delle rivendicazioni sottotraccia che arrivano, senza essere ascoltate, al cospetto di Meloni è che gli imprenditori che dialogano con la premier, e con i ministri competenti, cercano di stare alla larga dalla politica della lagna e cercano di concentrarsi su tre temi totalmente evasi dal governo: tasse, burocrazia, attrattività. Su questi punti il commento degli imprenditori, di destra e di sinistra, è purtroppo unanime: un mezzo disastro. E un disastro aggravato dalla presenza di una situazione non emergenziale, che potrebbe rendere più semplice al governo lavorare per dare un sostegno alle imprese. Le imprese rimproverano al governo una lentezza incomprensibile sul tema della sburocratizzazione, e alcuni imprenditori, increduli per l’immobilismo del governo su questo fronte, arrivano a evocare persino il modello portoghese, dove è stato creato uno sportello unico digitale per tutte le pratiche d’impresa (licenze, assunzioni, fisco) con risposta entro dieci giorni. Rimproverano al governo una gestione disastrosa, come da stessa ammissione di Giorgia Meloni all’ultima assemblea di Confindustria, della gestione di alcuni incentivi teoricamente importanti, come il piano Transizione 4.0, la cui struttura è stata caratterizzata da frammentazione nei provvedimenti, ritardi nei decreti attuativi, incentivi a pioggia senza orientamento verso settori primari (l’Italia, secondo l’indice Desi 2024, Digital Economy and Society Index, continua a essere  23esima su 27 in Europa per integrazione delle tecnologie digitali nelle imprese).

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Rimproverano al governo un’azione insufficiente sul tema delle tasse, e la famosa Ires premiale, ovvero l’aliquota Ires ridotta dal 24 per cento al 15 per cento per gli utili reinvestiti in assunzioni o beni strumentali, pur essendo in vigore per il 2025 non è stata ancora definita, e nessuna azienda ne ha potuto beneficiare, e sei mesi di ritardo non sono pochi. Rimproverano al governo una incapacità pressoché assoluta nel saper agire sul cuneo fiscale, sulla differenza tra costo per l’impresa e netto per il lavoratore, e con rassegnazione gli imprenditori ricordano spesso che in Spagna il cuneo è di 6 punti inferiore rispetto all’Italia (circa 39 per cento contro oltre 45 per cento). Rimproverano al governo anche la lentezza eccessiva nell’arrivare a soluzioni concrete, e urgenti, per aiutare gli imprenditori a trovare soluzioni creative per intervenire sul costo dell’energia e per quanto vi sia una volontà diffusa di trovare anche con le società elettriche una soluzione (leggete oggi sul Foglio Stefano Cingolani) il problema resta e sembra lontano dall’essere risolto (in media, un’impresa italiana paga circa il 15 per cento in più per l’elettricità rispetto a una impresa europea delle sue stesse dimensioni). E le stesse proposte di riforme a costo zero, ottanta proposte, inviate dal sindacato delle imprese, ovvero Confindustria, al governo sono state respinto con perdite (sette proposte valutate su ottanta ricevute). Arrivati a questo punto del ragionamento, spesso, quando si parla di rapporti tra imprese, imprenditori, e governo si fa spesso il nome del ministro Adolfo Urso. Ma scaricare le responsabilità su un ministro, per un problema che riguarda il governo, è un esercizio retorico che somiglia molto al tentativo di trovare un capro espiatorio.

Il problema, iniziano a pensare molti imprenditori, riguarda il cuore del governo, riguarda la presidenza del Consiglio, e riguarda la difficoltà con cui Meloni riesce a entrare nella testa di chi fa impresa. E in questa difficoltà vi è una serie di problemi che scende a cascata. Il pessimo rapporto che Meloni ha con Milano, città che praticamente in tre anni di governo ha ricevuto visite da parte della premier solo in occasioni speciali. L’assenza quasi totale di tempo dedicato dalla presidente del Consiglio a un rapporto con gli imprenditori che non si esaurisca nel rapporto con coloro che gli imprenditori li rappresentano, e anche qui pesano e spiccano nell’agenda della premier le poche visite fatte in questi anni nei luoghi produttivi italiani. La difficoltà o meglio l’imbarazzo mostrato da ogni esponente del governo ogni volta che un qualche interlocutore chiede se oltre allo spread basso, grande notizia, vi sia da parte del governo una qualche azione finalizzata a rendere l’Italia più attrattiva (risposta consueta: ci stiamo lavorando, vedremo più avanti, al momento nulla di nuovo in agenda).

Giorgia Meloni, pochi giorni fa, quasi a voler esorcizzare il tema, durante un incontro con Amazon Italia ha utilizzato le seguenti parole. “Costruire una politica di sviluppo a lungo termine significa anche lavorare per creare le condizioni affinché sempre più aziende e sempre più investitori scelgano la nostra nazione per produrre, creare occupazione, generare benessere. In altre parole, il messaggio che intendiamo lanciare all’Europa e al mondo è tanto semplice quanto potente: ‘Make in Italy’. In altre parole: scegliete l’Italia, perché l’economia è solida e resiliente, c’è un ambiente favorevole agli investimenti e si può contare su sistema industriale e manifatturiero di prim’ordine, che crea valore aggiunto e moltiplica le opportunità”. Con le parole ci siamo, con i fatti meno. E se un giorno Meloni dovesse chiedersi cosa non funziona nel suo governo più che cercare un qualche ministro responsabile o un qualche alleato discolo dovrebbe chiedersi cosa ha fatto il governo per “creare le condizioni affinché sempre più aziende e sempre più investitori scelgano la nostra nazione per produrre, creare  occupazione, generare benessere”. Le risposte, purtroppo, sarebbero molto deludenti. 



  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.





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