
Dalle aziende belliche a quelle dell’acqua, dalle banche ai grandi atenei: i mille nomi nel rapporto Onu su chi investe nel massacro
di Chiara Cruciati da il manifesto
Bulldozer, bombe, missili, droni, cloud per immagazzinare dati, spyware, reti idriche, prestiti, ricerca scientifica, carbone e gas naturale: la rete che tiene in piedi un sistema di colonialismo d’insediamento è ramificata quanto lo sono le politiche di espropriazione della terra, espulsione della popolazione indigena e istituzionalizzazione di un regime di discriminazione razziale. Per poter mantenere una simile rete, la storia lo insegna, serve aiuto. Israele, da decenni, lo ottiene da centinaia di aziende private, multinazionali, università, fondi di investimento, banche, società di high-tech.
Un sistema di complicità che il genocidio in corso a Gaza ha reso più visibile. È il contenuto dell’ultimo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni unite per la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. Il titolo dà il senso del rapporto, Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio: i profitti multimiliardari incassati da aziende di tutto il globo nel sostenere e mantenere il progetto di colonialismo d’insediamento israeliano.
SONO CIRCA MILLE, scrive la Relatrice, le compagnie finite sotto scrutinio delle Nazioni unite, di cui 48 nominate nel rapporto (quelle che sono state informate delle indagini), a cui si aggiungono università e centri di ricerca (dal Mit, il Massachusetts Institute of Technology, all’Università di Edimburgo). Ci sono giganti dell’economia mondiale: l’italiana Leonardo, Google, Amazon, Hp, Microsoft, Ibm, BlackRock, Chevron, Caterpillar, Volvo, Hyundai, Lockheed Martin, Airbnb e Booking.com, e ovviamente le aziende israeliane, dalla Elbit (industria bellica) alla Mekorot (acqua) fino alla Nso (spyware). La punta dell’iceberg: potrebbero essere molte di più, «influenti corporation finanziariamente e intrinsecamente legate all’apartheid e al militarismo israeliano».
IL TEMA È INDAGATO da anni da ricercatori, storici, economisti, e riassunto in quello che è stato efficacemente ribattezzato «Laboratorio Palestina»: «Facendo luce sull’economia politica di un’occupazione trasformatasi in genocidio – scrive Albanese – il rapporto rivela come l’occupazione eterna sia diventata il banco di prova ideale per i produttori di armi e le grandi aziende tecnologiche, mentre investitori e istituzioni pubbliche e private ne traggono profitto liberamente». Gli esempi, nelle 24 pagine del rapporto, abbondano.
BULLDOZER CHE demoliscono case e infrastrutture palestinesi in Cisgiordania e radono al suolo Gaza; mezzi da lavoro che allargano colonie esistenti e gettano i semi dei nuovi insediamenti; droni, spyware e riconoscimento facciale per il controllo totale e capillare della vita palestinese e mega cloud per immagazzinare i dati; tecnologie per la sorveglianza nelle carceri e per i checkpoint che fanno a pezzi la Cisgiordania e i diritti di milioni di persone; bombe, caccia, intelligenza artificiale, quadricotteri per massacrare Gaza; case vacanze nelle colonie nei Territori illegalmente occupati; reti idriche che sottraggono risorse naturali alle comunità palestinesi per rifornire le colonie; fondi di investimento e prestiti per alimentare la macchina dell’occupazione e per garantire la segregazione del popolo palestinese e lo sbriciolamento della libera economia produttiva.
Il rischio per le aziende è concreto, soprattutto alla luce delle ultime decisioni della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale: la prima nel gennaio 2024 ha accettato la richiesta del Sudafrica di indagare Israele per genocidio e nel luglio successivo ha definito l’occupazione militare israeliana «illegale, annessione di fatto e regime di apartheid»; la seconda nel novembre 2024 ha spiccato mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant.
SPIEGA ALBANESE: «Laddove le entità aziendali continuino le loro attività e relazioni con Israele – con la sua economia, le sue forze armate e i settori pubblico e privato collegati al territorio palestinese occupato – si può ritenere che abbiano consapevolmente contribuito a: violazione del diritto palestinese all’autodeterminazione; annessione di territorio palestinese, mantenimento di un’occupazione illegale…; crimini di apartheid e genocidio… Sia le leggi penali che quelle civili in diverse giurisdizioni possono essere invocate per ritenere le entità aziendali o i loro dirigenti responsabili di violazioni dei diritti umani e/o crimini di diritto internazionale».
IN ATTESA che i tribunali di mezzo mondo agiscano, la società civile può muoversi con i mezzi che ha, il boicottaggio: far pagare il prezzo del genocidio a chi ne trae profitto
Francesca Albanese: «Senza compagnie private l’occupazione si fermerebbe»
«Lo dico sempre: se la Palestina fosse una scena del crimine avrebbe addosso le impronte digitali di tutti noi. I beni che compriamo, le banche a cui affidiamo i nostri risparmi, le università a cui paghiamo le tasse». Parte da qui Francesca Albanese, Relatrice speciale Onu per la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, per spiegare il suo ultimo rapporto: l’accusa a mille aziende di tutto il mondo in complicità nei crimini israeliani.
Da quali considerazioni nasce il rapporto?
Ho cominciato a pensarci nel 2023, dopo aver letto di quante aziende partecipassero all’occupazione, alla sottrazione indebita di risorse naturali e al circuito bancario di supporto alle colonie. Ma non è solo questo: esiste un sottosuolo di attività economiche che supporta non solo le colonie, ma il sistema militare e tecnologico israeliano. Le ricerche hanno condotto a individuare la compartecipazione del settore privato, una serie di imprese che continuano a trarre profitto. Mentre l’economia israeliana sembra entrare in crisi, la Borsa valori di Tel Aviv registra decine di miliardi di dollari di crescita. Mettendo insieme i pezzi mi sono resa conto dell’esistenza di un’economia dell’occupazione che si è trasformata in economia del genocidio.
Scrive che i poteri coloniali hanno sempre fatto leva su relazioni di questo tipo per potersi mantenere. Senza l’apporto di aziende e corporation, la macchina dell’occupazione si fermerebbe?
Sì. Senza le imprese che trasferiscono armi, Israele non può tenere sotto scacco i palestinesi e non può continuare a trarre profitto dal perfezionamento e la vendita di armi. Lo sviluppo di armamenti e tecnologie si fermerebbe senza la cooperazione e la legittimità che arriva dalle università e dai centri ricerche, come il nostro Cnr che ha una serie di partnership con l’industria dell’agrobusiness, ad esempio. Non funzionerebbe senza i fondi europei elargiti alle compagnie israeliane.
Il rapporto dice chiaramente che queste compagnie possono essere ritenute responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità e di genocidio.
Storicamente le compagnie private hanno cercato di schivare gli obblighi legali diventando molto influenti nella definizione degli obblighi e delle responsabilità. Pensiamo a quanto siano influenti le lobby delle armi nel dare vita a leggi e regolamenti. Allo stesso tempo però esistono dei principi che impongono una due dilingence. In questo caso ci sono dei procedimenti contro Israele aperti dalla Corte internazionale di Giustizia e dalla Corte penale internazionale. Seppure non si sia ancora arrivati a giudizio, le due corti hanno avvisato della presunzione di rischio che impone di non sostenere lo Stato sotto indagine. Se quest’obbligo è in capo agli Stati, dovrebbe valere anche per le imprese le cui azioni danneggiano direttamente dei diritti umani. Certe aziende partecipano alla commissione di crimini: la compagnia di cemento che estrae risorse naturali nelle miniere dei Territori palestinesi occupati, le compagnie che vendono armi che uccidono, quelle che forniscono bulldozer usati per le demolizioni nei Territori occupati…Non c’è semplicemente un legame ma complicità nella commissione di crimini volti a violare il diritto all’autodeterminazione, a cristallizzare l’annessione e a sostenere l’occupazione permanente.
Nel rapporto si cita Leonardo. Tra le mille aziende sotto indagine, ci sono altre italiane?
Aziende e università italiane ci sono, ma sono ancora sotto indagine.
La complicità del settore privato permette il mantenimento del progetto coloniale di insediamento e di conseguenza del regime di apartheid. Avviene perché quel sistema di oppressione è conveniente, crea profitto. Come lo si rende sconveniente?
Il metodo più immediato e giusto è perseguire l’ingiustizia. Compagnie come l’israeliana Elbit o l’italiana Leonardo vanno portate in tribunale, anche per poter riconoscere riparazioni alle vittime. Il secondo metodo è la responsabilità imposta dalle opinioni pubbliche. Compagnie come Airbnb e Booking.com possono essere soggetto al boicottaggio. Lo stesso vale per Volvo i cui mezzi sono usati per demolire case e rimuovere corpi palestinesi dalle macerie di Gaza o per trasferire i prigionieri politici palestinesi. Dobbiamo tornare a un sistema di legalità. Il mio è innanzitutto un richiamo alla legalità che si fonda su un punto: basta con l’artificio mentale per cui c’è un Israele buono dentro i confini dello Stato e un Israele cattivo nei Territori occupati. La colonizzazione è un’impresa dello Stato, l’apartheid è un crimine dello Stato, il genocidio è un crimine dello Stato. Non basta più disinvestire solo dalle colonie.
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