5 Luglio 2025
Quali prospettive per la ricerca nelle università?


Le università svolgono un ruolo fondamentale nel sistema della ricerca italiano, coprendo rispettivamente un quarto della spesa in R&S e più della metà di quella nella ricerca di base. Tuttavia, la principale voce di finanziamento degli atenei, il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), dopo qualche anno di incrementi in termini reali è tornato sul livello del 2000 e dovrebbe ridursi ulteriormente nel 2026-27. Parallelamente, dal 2026 si esauriranno i fondi del PNRR, che avranno permesso di reclutare fino a oltre 5mila nuovi ricercatori e ricercatrici a tempo determinato per specifici progetti di ricerca. La riduzione in termini reali del FFO e l’esaurimento del PNRR limiteranno la capacità delle università di sostenere e alimentare la ricerca pubblica e allontaneranno le prospettive di stabilizzazione professionale per il personale di ricerca a tempo determinato, che potrebbero ulteriormente peggiorare con l’eventuale approvazione della riforma Bernini del pre-ruolo universitario. Sarebbe utile cominciare a discutere di eventuali percorsi di stabilizzazione differenti dentro le università, pensando a figure come quella del lecturer.

* * *

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Le università in Italia svolgono un ruolo fondamentale per lo sviluppo del Paese, non solo attraverso la didattica e le attività di formazione (prima missione), ma anche con la propria attività di ricerca (seconda missione).[1] Nelle università italiane si concentra, infatti, un quarto della spesa totale in Ricerca e Sviluppo (R&S) del Paese (scende al 20% in Germania e al 15% in Francia) e più della metà della spesa in ricerca di base. Accanto alle università, esistono altri centri di ricerca pubblici, con cui queste collaborano, ma con minori risorse complessive a disposizione: il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il principale di questi centri, ha un budget pari a circa il 15% di quello di tutti gli atenei statali per la ricerca.[2]

Nonostante emerga di tanto in tanto (per esempio, in occasione del recente sciopero dei ricercatori[3]), il tema del finanziamento alle università e del lavoro di ricerca rimane spesso ai margini del dibattito pubblico. Le questioni centrali oggi sembrano due e, insieme, determinano la capacità del sistema di sostenere la ricerca pubblica e di alimentarla in futuro: la prima riguarda l’evoluzione storica dei finanziamenti alla ricerca e dei criteri con cui vengono (e venivano) distribuiti; la seconda, strettamente connessa, le prospettive di stabilizzazione professionale per il personale di ricerca a fronte di possibili modifiche normative e il prossimo esaurimento dei fondi PNRR.

Questi aspetti, già di per sé cruciali per la competitività di ogni Paese, appaiono ancora più urgenti alla luce del contesto internazionale: gli ingenti e in parte imprevedibili tagli ai fondi federali per la ricerca negli Stati Uniti[4] potrebbero aumentare indirettamente l’attrattività delle università europee – anche italiane – e, di conseguenza, l’offerta di ricercatori e ricercatrici sul mercato accademico. Il programma europeo “Choose Europe for Science” annunciato a maggio dalla Commissione, che comprende soprattutto uno stanziamento di 500 milioni di euro per il 2025-27, è pensato proprio per aumentare la capacità degli Stati Membri di attrarre nuovi ricercatori.[5]

In Italia, però, partiamo da un livello di spesa molto basso, sia per la ricerca che per la formazione, con tendenze poco incoraggianti: la spesa pubblica in R&S è ferma allo 0,5% del Pil, e dovrebbe aumentare di appena 0,1 punti nei prossimi quattro anni, mentre quella per istruzione terziaria per studente in rapporto al Pil pro capite, dopo essersi ridotta quasi costantemente per un decennio, è tra le più basse d’Europa (16%), poco più della metà di quella tedesca (30%) o francese (26%).[6] In un contesto simile anche piccole riduzioni degli stanziamenti, nell’ordine delle centinaia di milioni, possono essere molto rilevanti.

La tua casa è in procedura esecutiva?

sospendi la procedura con la legge sul sovraindebitamento

 

Come è finanziata la ricerca nelle università?

L’attività di ricerca nelle università italiane è finanziata prevalentemente dal settore pubblico, con un piccolo contributo da parte delle imprese private e delle realtà nonprofit (Fig. 1). La voce principale, che copriva quasi due terzi dei finanziamenti nel 2022 (ultimo anno disponibile nel database Eurostat), è il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO, vedi sotto), a cui si aggiungono altri trasferimenti finanziati dalla fiscalità generale (in sostanza, redistribuzione delle tasse universitarie e bandi nazionali) e i fondi competitivi, cioè quelli ricavati dalla partecipazione a bandi europei. A queste voci vanno aggiunti gli investimenti del PNRR degli ultimi anni, i quali, però, a un certo punto si interromperanno.

Nel 2022 il livello dei finanziamenti a prezzi costanti era pari a quello del 2009, con una parziale ricomposizione: è diminuito il FFO, mentre è aumentato il contributo delle imprese private e dei fondi europei (Fig. 2).[7]

Il Fondo di Finanziamento Ordinario

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) è un trasferimento unico dallo Stato alle università pubbliche, istituito dal 1994 (l. 557/1993) per garantire maggiore autonomia agli atenei e responsabilizzarli nella gestione dei bilanci tramite processi di valutazione dei risultati. Questa logica del c.d. block grant intendeva superare il modello precedente, in cui la spesa era frammentata e mancavano incentivi al contenimento dei costi (line-item budgeting).[8] Nonostante solo una quota tra il 50 e il 60% del FFO venga destinata direttamente ad attività di ricerca, il Fondo rimane lo strumento di finanziamento principale, specialmente per il reclutamento di personale di ricerca a tempo indeterminato, dato che si tratta delle uniche risorse consistenti su cui le università possono contare su base continuativa.

Essendo determinato di anno in anno, il FFO è anche piuttosto sensibile alle politiche di bilancio. Tra il 1994 e il 2008, il contributo del FFO a ciascun ateneo si articolava in una “quota base” e in una “quota di riequilibrio”, quest’ultima pensata per ripianare alcune disuguaglianze nella distribuzione dei finanziamenti tra gli atenei e determinata – in teoria – sulla base dei risultati conseguiti nel campo della formazione e della ricerca.[9] Nella pratica, anche per difficoltà incontrate nella misurazione degli indicatori individuati dalla normativa, la quota base (corrispondente alla “spesa storica”, di fatto legata alla dimensione di ciascun ateneo) rimase prevalente, sempre superiore al 90%. In quegli anni, la consistenza del FFO aumentò tendenzialmente sia a prezzi correnti (da 3,5 miliardi nel 1994 a 7,4 miliardi nel 2008) che a prezzi costanti del 2020 (da 6 a 8,5 miliardi, vedi la Fig. 3).

Nel decennio successivo, invece, il FFO venne tagliato in termini reali ogni anno (con l’eccezione del 2014), e riportato sui livelli di metà anni Novanta. Questo avvenne parallelamente a due modifiche sostanziali nei criteri di ripartizione del Fondo tra gli atenei (Fig. 4):

  • l’introduzione dal 2009 di una “quota premiale”, inizialmente piccola (7%) ma crescente nel tempo, arrivata nel 2024 al 26% del totale. Dal 2011, la quota premiale è determinata per la maggior parte dai risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) effettuata dall’ANVUR, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca, diventata pienamente operativa con la riforma Gelmini (l. 240/210);
  • il recupero dal 2014 del criterio del “costo standard” per studente (già introdotto alla fine degli anni Novanta e rimodulato più volte dopo il 2014): semplificando un po’, una quota del FFO è calcolata a partire dal numero di studenti iscritti in ciascun ateneo e dai costi sostenuti per il personale e per la gestione delle strutture. Inoltre, la quota “storica” del FFO dipende in misura crescente dalla quota di costo standard (in aumento) e sempre meno dalla componente “storica” del passato (questo perché quota standard e quota storica costituiscono insieme la “quota base”, su cui si calcola appunto parte della quota storica dell’anno successivo). Come risultato, la ripartizione del FFO 2024 dipendeva per un quarto dal costo standard e per un quinto dalla spesa storica (che valeva l’84% nel 2009). Complessivamente, la “quota base” si è ridotta di 40 punti percentuali in un decennio.

Oltre a queste variazioni, è quasi quadruplicata la quota del FFO vincolata a specifiche destinazioni, pari a circa il 9% nel 2009 e al 26% nel 2024.[10] Questa tendenza, abbandonando almeno in parte la logica del block grant in favore di un più spinto performance-based funding, sembra contraddire il principio stesso per cui era stato introdotto il FFO, cioè quello di concedere autonomia alle università nel decidere la destinazione delle risorse ricevute.

Richiedi prestito online

Procedura celere

 

Nonostante il FFO sia stato aumentato costantemente in termini nominali tra il 2017 e il 2023, è stato poi ridotto nel 2024 (-173 milioni): a prezzi costanti del 2020, questo corrisponde a un finanziamento stabile nel 2021-23 e a un calo del 3,9% nel 2024. Il taglio nominale del finanziamento per il 2024 sarebbe più ingente, pari a circa mezzo miliardo, considerando anche la mancata destinazione di fondi aggiuntivi per il piano straordinario di assunzioni varato dal governo Draghi, per cui erano previsti circa 340 milioni in quell’anno.[11] Secondo il Bilancio di previsione del MUR, nel 2025 dovrebbe esserci un parziale recupero, ma nel 2026-27 il FFO dovrebbe ridursi ulteriormente a prezzi costanti, ritornando sul livello del 1999: un calo previsto del 5,5% rispetto al 2022.

È difficile stimare con precisione quanto una riduzione del FFO impatti sull’attività di ricerca degli atenei. Tuttavia, si può dire che il modello perseguito da circa 15 anni, fondato sulla logica del performance-based funding (che si riflette nella diminuzione della quota base a favore di quote premiali e vincolate), mentre da un lato valorizza ulteriormente alcune specifiche realtà che già ottengono buoni risultati in termini di ricerca (per esempio, i “Dipartimenti di eccellenza”, i cui fondi dal 2018 rientrano nella quota vincolata del FFO), dall’altro lato limita inevitabilmente la capacità della maggior parte degli atenei di programmare le proprie attività di ricerca, che dipendono soprattutto dalla possibilità di assumere e stabilizzare nuovi ricercatori (il 70% della spesa in ricerca nelle università è relativo proprio al personale). Si noti che ridurre il FFO implica una “doppia restrizione” sulle entrate degli atenei, poiché le tasse universitarie versate dagli studenti non possono superare il 20% del Fondo di ciascuna università.[12]

E il PNRR?

Quasi 9,6 miliardi di euro di fondi del PNRR sono destinati a progetti che riguardano almeno in parte la ricerca nelle università (Tav. 1). Di questi, circa un miliardo viene impiegato per finanziare un certo numero di borse di dottorato per ricerche “innovative”, legate alla Pubblica Amministrazione e alla cultura (504 milioni) oppure a progetti concordati direttamente con imprese private (510 milioni). La parte più consistente degli investimenti è però relativa a progetti di ricerca come i PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, 1,8 miliardi) e i Partenariati estesi tra università, centri di ricerca ed enti privati (1,6 miliardi); e soprattutto al potenziamento delle infrastrutture anche tramite la creazione di “ecosistemi dell’innovazione” e “campioni nazionali di R&S” (4,4 miliardi in tutto).

In base ai dati disponibili, non è possibile stabilire in quale misura questi fondi, specialmente quelli destinati alle infrastrutture, siano a beneficio delle università. Anche assumendo che tale quota complessiva sia intorno al 50%,[13] si tratterebbe comunque di una cifra molto rilevante, pari a circa 4,8 miliardi di euro, di poco inferiore al totale della spesa pubblica per la ricerca nelle università nel 2022.

In ogni caso, grazie al PNRR sono state finanziate finora oltre 12mila borse di dottorato, e sono stati (o dovrebbero essere prossimamente) assunti quasi 4.300 tra ricercatori a tempo determinato nell’ambito dei PRIN e dei Partenariati Estesi. Considerando anche le borse concesse a giovani ricercatori per loro progetti (quasi due terzi delle quali ancora da assegnare), si tratta di oltre 5.000 unità di personale aggiuntive, un aumento di circa il 18% rispetto al numero totale di assegnisti e ricercatori a tempo determinato presenti in Italia nel 2020-21 (cioè pre-PNRR).

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

Da questo quadro emergono alcuni aspetti problematici:

  • il considerevole aumento delle risorse disponibili per il reclutamento di nuovo personale potrebbe avere creato un eccesso di domanda, che in assenza di risorse aggiuntive non potrà essere sostenuta una volta terminato il PNRR. Ci sarebbe un vincolo per stabilizzare la posizione dentro l’università di almeno 2 ricercatori ogni 5 assunti a tempo determinato con i fondi del Piano. Si riuscirà a rispettarlo?
  • Non è chiaro quale sarà l’output di alcuni progetti finanziati dal PNRR: come si potrà misurare, per esempio, l’efficacia dei Partenariati estesi, di un nuovo “ecosistema di innovazione” o di un “campione nazionale di ricerca e sviluppo”, se gli obiettivi (target) da raggiungere riguardano in molti casi esclusivamente il numero di progetti da completare?[14] Il funzionamento delle infrastrutture create continuerà poi a essere finanziato anche dopo la conclusione del Piano?
  • Manca un anno preciso al termine previsto del PNRR. Il 60% dei fondi destinati ai progetti di ricerca e infrastrutturali non sono ancora stati spesi solo un terzo degli investimenti sia classificato “in ritardo” rispetto alla tabella di marcia (Tav. 1). Si tratta, in questo caso, di un problema più ampio che riguarda tutte le missioni del PNRR, legato sia alla limitata capacità gestionale delle amministrazioni sia alla scelta di rinviare al 2026 le scadenze più significative per rispettare le tappe intermedie.

I contratti a tempo determinato nella ricerca: una questione aperta

Riassumendo, dal 2026 si osserveranno due fatti: da un lato, la fine dei finanziamenti PNRR; dall’altro una riduzione prevista in termini reali (in base al Bilancio per capitoli del MUR) del FFO, la principale voce da cui dipende la ricerca nelle università (insieme a molte altre cose).

Al di là delle considerazioni di merito sulla politica di bilancio che trascura un settore fondamentale per la competitività del Paese, questa combinazione potrebbe avere degli effetti negativi soprattutto per i ricercatori con posizioni a termine, per cui le prospettive di stabilizzazione si allontanerebbero. Di quante persone si tratta? Circa 32mila tra assegnisti e ricercatori a tempo determinato nel 2023 – su un personale totale di 80mila, considerando anche i docenti ordinari e associati e i ricercatori a tempo indeterminato, ed escludendo i docenti a contratto (33mila) – ma il loro numero è cresciuto negli ultimi due anni appunto grazie ai fondi PNRR.[15]

Le prospettive per i ricercatori con posizioni a termine dipendono anche dall’eventuale approvazione della riforma Bernini o “riforma del pre-ruolo universitario”, il cui iter è attualmente sospeso (d.d.l. 1240 del 20 settembre 2024). L’attuale testo prevede la creazione di nuove figure con forme contrattuali flessibili con scarse tutele (senza contrattazione collettiva nazionale e senza i diritti tipici del lavoro subordinato come ferie e malattia), come l’assegnista junior, l’assegnista senior, il contratto post-doc.

Il ricorso a questi contratti consentirebbe alle università di assumere personale di ricerca per periodi relativamente brevi (gli assegni coprirebbero minimo un anno e massimo sei complessivamente, il contratto di post-doc minimo un anno e massimo tre) e con costi inferiori rispetto a quelli per un “contratto di ricerca” (sottoposto invece a contrattazione collettiva) o per un ricercatore in “tenure-track” (RTT, una posizione che prevede il passaggio a professore associato di ruolo), entrambe figure introdotte dalla riforma Verducci (l.79/2022) durante il governo Draghi per riconoscere maggiori tutele al personale di ricerca e sostituire gli RTD-a, RTD-b e gli assegni di ricerca. Tuttavia, a causa di ritardi nell’attuazione di quella riforma, questi contratti sono stati a lungo prorogati, rinviando la stipula dei “contratti di ricerca”, come detto molto più costosi per le università rispetto a un assegno, a parità di retribuzione.

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Ora, dato il contesto di riduzione dei finanziamenti, anche supponendo che la riforma Bernini non venga approvata, sembra difficile che questi nuovi contratti vengano attivati in numero sufficiente rispetto al numero notevole di ricercatori assunti con fondi PNRR. L’occasione sarebbe valida per discutere dell’introduzione anche in Italia di figure analoghe a quelle dei lecturer anglosassoni, docenti con contratti stabili all’interno delle università ma impegnati prevalentemente nella didattica (rispetto alla ricerca): scegliendo questa strada, si comincerebbe a discutere di possibili percorsi di carriera diversi dentro alle università, limitando il precariato e favorendo la selezione delle diverse figure professionali.

 


[1] A formazione e ricerca si aggiunge la cosiddetta “terza missione” delle università, definita da quelle attività di interazione tra le università e la società atte al trasferimento e alla diffusione delle conoscenze e della ricerca prodotte, per esempio attraverso eventi aperti al pubblico, la partecipazione a programmi radiofonici e televisivi, o la produzione di documenti e articoli divulgativi. In questo senso, le attività dell’OCPI possono essere considerate attività di “terza missione”. Nel seguito della nota ci riferiamo indistintamente a università pubbliche e private, se non specificato altrimenti, ma si noti che il 90% del personale di ricerca universitario è impiegato negli atenei statali.

[4] Vedi per esempio “A ‘scientific heaven’ at risk”, The New York Times International edition, 5 giugno 2025.

[7] Per gli anni precedenti al 2009 non è disponibile una scomposizione dei finanziamenti per ricerca e sviluppo nelle università, perciò la serie rappresentata parte da quell’anno. Per avere un’idea della dinamica precedente si può comunque osservare la serie del FFO, la fonte principale (vedi paragrafo successivo).

[8] Per una ricostruzione puntuale e dettagliata dell’evoluzione del FFO, vedi Nobili, C. e Turri, M. (2025). Il Fondo di Finanziamento Ordinario: dinamiche e potenzialità. Milano, Milano University Press.

[9] Si possono distinguere tre modelli per il calcolo della quota di riequilibrio tra il 1995 e il 2008, elaborati da tre organi diversi: Commissione tecnica per la spesa pubblica (1995-97, considerava deviazione da costo standard del sistema); Osservatorio per la valutazione del sistema universitario (1998-2003, con un 30% legato ai risultati della formazione); Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario (2004-2008, un terzo legato ai risultati della formazione e un terzo a quelli della ricerca). Per approfondire, vedi Nobili e Turri (2025), cit., cap. 3.3.

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

[10] L’aumento è dovuto soprattutto ai diversi piani straordinari di reclutamento. Vedi la Tabella 5, Appendice 1 in Nobili e Turri (2025), cit.

[12] Vedi il D.P.R. n. 306 del 25 luglio 1997, art. 5.

[13] Il già citato rapporto “Lo stato della ricerca scientifica in Italia” indica che il 51% dei fondi PNRR per la ricerca sarebbe a beneficio dei privati, e la restante parte degli enti pubblici, tra cui rientrano e, come detto, hanno un ruolo predominante le università.

[14] Per esempio, i target associati all’investimento “Ecosistemi di innovazione” (M4C2 – 1.5), in scadenza nel 2026, sono il “Numero di ecosistemi completati” (obiettivo: 10 progetti); e le “Attività realizzate dagli ecosistemi” rispetto a quanto stabilito nella presentazione dei progetti (obiettivo: 10 progetti con attività completate). La distinzione fra i due target rimane peraltro poco chiara. La precedente milestone intermedia, raggiunta nel 2022, riguardava l’aggiudicazione degli appalti per i progetti.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Source link

Vuoi bloccare la procedura esecutiva?

richiedi il saldo e stralcio